La prima bestemmia

Nature morte in cucina e i panni stesi in cerca di una vita. Scuotere gli occhi del mattino per guardare oltre alla tazza del tè. Tornare a sottolineare parole imprescindibili e concetti espressi senza banalità retoriche e orpelli di vecchiaie.

Quando conosci la potenza del punto a capo e delle frasi brevi isolate. Quando conosci il potere evocativo di tramonti ed etimologie.

Tu che hai sbattuto l’anima contro ai marciapiedi, hai perso il pudore nelle scuole di teatro ed ora sai criticare, ma fai fatica ad amare. Io che ho raccolto l’anima sotto a un semaforo, sono salito in piedi sulle panchine per inaugurare la stagione dell’amore fatto di ribaltamenti e prese, battaglie di ventri e dolcezze e mani strette per farsi forza.

Con il chiodo fisso della creazione: dal due nasce il tre e non è per forza un bambino. Essere del nostro essere, prolungamento dei nostri sguardi e libertà di un nome.

E ci ripetevamo che fuori dal contesto ogni creazione acquista valore. E allora scappiamo dalla famiglia, dagli atelier, dalle scuole e dai cinema, dalle manifestazioni fatiscenti delle nostre contrarietà e dal paese natale. Ci torneremo in seguito accolti in feste o indifferenze.

Lo sguardo altro nelle attese racchiusi nelle ascensori. Una porta si apre e ci sarà prima o poi chi ci inviterà a cena e ci farà sedere alla tavola del tu.

Ed ora scrivimi che così non puoi sognare, che altra cosa erano i film dell’epoca nuova e i bianchi e nero delle magliette a righe, i discorsi improponibili ai piedi del letto e tutti i su e giù a mano piena di mister Godard.

Dovrei finire con un vorrei, lo sai. Ma al mattino il volere non serve a niente: scarpe da corsa e maglietta leggera, la strada aspetta e vuoi mettere a guardarla col fiatone, con le gambe pesanti? Lo sai che c’è? Che non riesco a fermarmi. E prova a prendermi, giochiamo a rincorrerci. E sarà allora che ti racconterò delle mie debolezze, della mano alzata della quarta elementare e della noia dei tempi della maturità. Del mio primo vaffanculo alla professoressa d’inglese e della mia prima bestemmia: anni sei, un prato, un retino, una farfalla bianca imprendibile. Accarezzo il cielo e la imprigiono, si rotola nell’erba, la mia mano piccola tra le maglie di corda, per la mia gloria a chiamare mamma, a chiamare nonna: un istante, mi distraggo, lei vola, io urlo per caso o per sentito dire. Contro dio, il cielo e il denaro. Poi piango. Il senso di colpa che accompagna i miei oggi e polvere bianca a colorare il verde dei fili d’erba.

manifesto futurista

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