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Sei così semplice, a volte

I banner pubblicitari per scoprire che a McDonald’s è arrivata la colazione che non c’era, mentre noi sdraiati sul letto guardavamo il soffitto e non avevamo parole per commentare il cielo.

Con la pigrizia della domenica mattina che lascia chiuse le finestre e attende a lungo l’odore del caffè. Mentre ti preoccupavi degli altri e ti facevi domande sulla lunghezza dei tuoi capelli provavo a esporti la mia teoria della relatività, dicevo lascia perdere i giudizi e quando cammini cura il tuo incedere: la testa alta, le spalle rilassate; mi interrompevi curvando le labbra verso il basso coi tuoi però non è giusto e sussurravo parole senza senso sulla tua schiena per nascondere l’alito del mattino.

Mentre qualcuno si domandava la differenza tra rivoluzionario e malvivente mi interrogavi sul significato della legge, credi che prima o poi andremo in prigione io e te? Scoppiavo a ridere, dicevo che daremmo fastidio anche lì.

“Sei così semplice, a volte” Dicevi tu, ti riferivi a quando me ne stavo zitto davanti alla tv, seduto in tavola con la forchetta in mano o a correre dietro a un pallone. E cominciavo con le metafore e le differenze dei sessi, noi maschi come i balconi di Quarto Oggiaro, coi panni stesi in bella mostra e le piante di basilico nei vasi di plastica, voi donne centrali nucleari e inseguirsi di tubi e fumate bianche.

Di quando avevi fame già alle undici, ti proponevo un risotto e mi mancava il riso, dicevi sei troppo lontano e per fortuna non tiravamo in ballo l’invenzione del teletrasporto. E finivi per scomparire nel pomeriggio, abbiamo bisogno di pause, dicevi e non riuscivo a non scriverti sciocchezze. Di quella volta che mi avevano spiegato perché il cielo è azzurro, son storie di fisica, e tu lo sai che sottometto tutto all’estetica. Parlami ancora delle tue gonne lunghe e delle scarpe improponibili di voi ragazze. Sollevami il colletto della camicia, fammi sentire ribelle come Cantona, dai fatti infilare da dietro e scopriti impotente davanti alle mie giocate al centro del campo. Finiremo stravolti ad ansimare piegati sulle ginocchia, ci scambieremo le magliette e rilasseremo i muscoli in doccia.

E’ ancora domenica e sussurravi al cuscino, che fine faremo domani? Dovremmo parlare per quarti di secolo e chiederci se avremo fatto la storia.

Foto: dalla rete.

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Io vado in chiesa

Della debolezza delle sei del pomeriggio e di quelle fasi impilate in solitudini.

Avrei voluto farti ridere e mi è uscito uno scarabocchio, un urlo senza versi né disperazione. Dove la gioia, dove?

Ho rotto il freno davanti della bicicletta e la mia vespa è senza benzina da giorni. Era notte e si fermavano gli autostoppisti pronti ad accogliere le mie domande d’aiuto e ci sedevamo in fianco alla strada e condividevamo il superfluo di sigarette mentre l’indispensabile usciva dalle nostre bocche.

C’erano fuochi in lontananza e prostitute annoiate a specchiarsi nei cellulari. Volevamo soltanto parlare e ridare un volto umano alla notte non accorgendoci che il buio è fatto per il riposo.

Così mi dicevi che ti fischiavano le orecchie e rispondevo che è impossibile che qualcuno parli di noi.

E cercavamo stelle nei cieli e trovavamo soltanto bianco di lampioni e le scritte lampeggianti degli autonoleggi. Così le cicale danneggiavano i silenzi, ti dicevo che a Parigi non esistono le cavallette e tu sbuffavi e mi stringevi le spalle dicevi che prima o poi qualcuno dovrà pur dirlo che i miei racconti son peggio delle foto delle vacanze. Che se in un luogo non ci sei stato non ti interessano le immagini degli altri, ti basta uno sguardo al ritorno e misuri il gradimento dallo sguardo e dalla camminata.

Hai mai pensato di fare il sufer? Credo di no.

Così il mattino della domenica ci scavava gli occhi e il marciapiede chiedeva il conto alle natiche. Credo sarebbe meglio rifugiarci in chiesa ed aspettare la prossima notte, dicevi tu. Ci guarderebbero storto, puzziamo. E c’era una volta una cena e una torta salata, vino bianco e pistacchi e un ragazzo alto e rasato con dei leggings strappati sulle cosce e tatuaggi a grappoli che mi guarda negli occhi e mi dice sì, la festa techno era ormai finita, mi ero portato anche una ragazza a casa, ci avevo fatto quei quattro salti d’obbligo, non mi ricordo poi tanto. Mi son svegliato e le ho sussurrato dormi, io vado in chiesa, credo di averne bisogno. E così ho camminato un po’ perché non ci entro io in una chiesa brutta e poi sono andato a Messa. Vedila come vuoi, ma non ci vedo niente di strano.

Dove lo cerchi riposo tu? Ti sei dimenticato della morte, stanotte? Io no, e così, per paura, non chiudo mai le porte e parlo con chiunque e poi scrivo a lei.

Le scrivi così tanto perché hai paura di morire? Credo di sì.

Credi che lei possa salvarti? Lo credo.

Non avrai più paura? Certo che sì, ma gliene parlerò.

Ti ascolterà? Non credo.

Immagine: Leliena Mojarova

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L’amore non esiste, esiste solo l’acqua del rubinetto

Costretto a casa. La paura del quadro elettrico e le esplosioni emotive delle circostanze.

Guardava alle pareti con l’espressione degli imbianchini. Lavoro, solo lavoro, tutto è lavoro.

Prese un pennarello nero e disegnò sul bianco del muro. Tre righe lunghe. Non soddisfatto decise di imbrogliare il mondo e sollevare ogni tratto dal senso. Ghirigori scuri e una scritta: l’amore non è esiste, esiste l’acqua del rubinetto e con quella laverò via le brutture del mondo.

Corse al lavandino, svitò il pomello di destra, mise le mani a conca e aspettò che si riempissero d’acqua, poi, facendo attenzione a non perdere nemmeno una goccia, raggiunse il muro e lanciò il liquido trasparente che s’impennò e finì sugli scarabocchi.

“Quando lei tornerà si arrabbierà molto. Darà la colpa a me. Sono emotivo. Tutto qui.”

Prese un panno bianco e strofinò il muro. Il disegno non si cancellava.

Allora si sedette a gambe incrociate sul pavimento, fissò la parete.

“Quando lei tornerà mi manderà via. Non mi vorrà più vedere. Ma non è colpa mia. Sono impulsivo, tutto qui.”

Pronunciò “impulsivo” a voce alta e appoggiò uno strano accento sull’ultima o, tanto che si meravigliò di come un suono così strano potesse essergli uscito dalla gola.

Si sollevò agilmente e raggiunse un armadio a muro, lo aprì e rovistando in una piccola latta afferrò dei chiodi, poi prese un martello. Tornò al muro. Si levò i pantaloni e li inchiodò al gesso. Poi si tirò via le calze una a una. Poi la camicia, poi il cappello. Tutto inchiodato in ordine sparso.

Si ritrovò in mutande seduto a gambe incrociate a guardare il muro davanti a sé:

“Dovrebbe arrivare Martin. Se arriva Martin non s’arrabbierà.”

Si sollevò ancora e raggiunse l’armadio, prese una giacca pesante e ci vollero quattro chiodi perché restasse attaccata al muro.

“Così non avrò freddo.”

Si sdraiò sul lato, il braccio piegato a sostenere la testa:

“Martin non arriverà. Non si arrabbierà. Se lei non arrivasse, non si arrabbierebbe. Speriamo che lei non arrivi.”

Si sfilò le mutande bianche e le sollevò davanti agli occhi. Poi le appoggiò al muro e diede un’occhiata all’insieme.

“Bisogna sporcarle. A lei non piacciono le mutande bianche.”

Tracciò una X col pennarello nero sul tessuto bianco.

“Le piacerebbero queste. Piacerebbero anche a Martin queste.”

Le inchiodò al muro.

“Ora ci vorrebbe una paperella dentro a una vasca da bagno. Se lei arrivasse e vedesse una paperella dentro una vasca da bagno non si arrabbierebbe, sarebbe contenta.”

Andò in bagno, prese una paperella e la inchiodò al muro un po’ in disparte rispetto ai vestiti. Poi col pennarello nero tracciò un grande cerchio che iniziava sul muro e finiva sul pavimento. Uscì nudo sulla terrazza di casa e ritornò dentro con una canna verde per l’irrigazione, la collegò al rubinetto della cucina e cominciò a bagnare mirando dentro al cerchio.

Rimase fermo. L’acqua scorreva. Fischiettava il ritornello di una canzone di Battisti.

“Si farà il bagno. Sarà contenta. Faremo il bagno insieme, tutti e due nudi. E se arriverà anche Martin si farà il bagno anche Martin. Non sono mai stato geloso di Martin.”

Alzò le spalle e appoggiò la canna al pavimento stando bene attento a non posizionarla fuori dalla linea nera.

Si sdraiò nell’acqua, guardò il soffitto, disse: “Manca qualcosa lassù, avremo bisogno di stelle, di un cielo, una nuvola. Dovrà essere bellissimo. Non ci serviranno lampadari.” Così prese la scopa e mulinò con forza contro al manufatto di vetro che si staccò e cadde sul pavimento frantumandosi.

“Lei non ha molta immaginazione, ma ne servirà molta, è tutto così bianco là sopra. Aspetteremo quando sarà buio e farò finta di vedere delle stelle cadenti. Lei ci crederà, ha sempre funzionato. Dirà: Peccato, dovrei stare più attenta.”

Guardava in alto e immaginava cieli senza rendersi conto che i suoi piedi erano rossi di sangue, trapassati più volte dalle schegge di vetro del lampadario distrutto.

Gli venne un’idea. Corse in camera da letto e prese il computer portatile. Lo appoggiò su una sedia, disse: “Ti verrà voglia di venire qui quando vedrai tutto questo. Non ti arrabbierai, credo faremo l’amore.”

Aprì Facebook e le scrisse queste esatte parole. Lei era in chat: attiva, verde. Non rispose. Lui sapeva che lei aveva letto.

“Arriverà, mi farò sorprendere.”

“E poi ci vorrà un sole. Un sole non allo zenit, un sole prima del tramonto. Un sole caldo che non scalda, che illumini senza invadenza.”

Così prese una lampada e l’appoggiò su una sedia. I piedi nell’acqua ormai rossa. Collegò la spina alla presa, la lampada si accese. L’acqua saliva.

“Non avrà caldo?”

Pensò allora che mancasse un vento leggero, di quelli che si infilano tra i capelli e sotto ai vestiti. Di quelli che solleticano i corpi nudi e costringono a stringersi.

Andò in bagno, sentì per la prima volta male ai piedi, non ci fece molto caso, afferrò l’asciugacapelli.

Il mare rosso, la paperella, la luce fioca di una lampada, le mani bagnate. Collegò la spina alla presa.

I vestiti appesi grondarono lacrime.

Lei non arrivò.

Martin fu il primo a bussare alla porta.

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Sulla senna con Jimmy Choo

Guardava donne con le ali sorvolare le cattedrali tra gli Oh meravigliati delle turiste anglofone. Mentre si chiedeva cosa tenesse i suoi piedi ancorati alla terra, il puzzo di piscia della camminata in riva alla Senna. Quattro ragazzi in bermuda e camicia a tirare su droga dal naso e a scuotere il culo al ritmo dell’elettronica di Villalobos. Le righe orizzontali rosse sulla maglietta larga che si appoggia su un seno appena accennato, lei che muove le labbra e lui che resta in silenzio fissandole. Della collezione estiva di Jimmy Choo e delle derive politiche delle associazioni di volontariato. Così le ribaltava il mondo chiedendole chissà chi ha inventato lo zucchero filato e ci pensi mai a che lingua parleremmo se esistesse ancora la Pangea? Lei scuoteva la testa, rispondeva sciocco, ascoltami e poi chiamava l’amica per chiederle che fine avesse fatto e dirle sono con lui, ma se ci raggiungi possiamo andarci a bere qualcosa, non mi ha ancora detto niente, nessuna novità, no davvero, che ne dici di un gelato, ne fanno di buonissimi. Lui si incantava nel suono improvvisato di certi barconi immobili da anni. Gli veniva a noia il Jazz. Lei gli mostrava il collo e lui la stringeva da dietro. Ti sento distante. Lo sono eppure ti abbraccio, non te ne accorgi? In effetti ci sono muscoli involontari. Ci avresti mai pensato? Io e te a Parigi. Lui non ci aveva mai pensato, proprio mai. Il regalo di lei per i suoi trent’anni e un deodorante firmato Kenzo. Sei stanco? Andiamo a dormire. Lei chiama l’amica, le dice, è un po’ tardi, credo lui voglia stare in camera, non aspetto altro. Ci vedremo domani. Mi fai incuriosire. Così tornavano in albergo, mentre camminavano lui giocava a stare in equilibrio sul bordo del marciapiede. Lei lo guardava e rideva. Lo tirava verso di sè e lo baciava. Una volta in camera lei si chiude in bagno, lui si sdraia sul letto e guarda il soffitto. Lei si lava: le mutandine carine, il profumo buono. Si spalma la crema sulle cosce, si idrata le labbra, gli sciacqui di collutorio per l’igiene orale. Esce dal bagno e lui non c’è. Nemmeno un fiore sul letto, nemmeno un biglietto. Nessuna caccia al tesoro. Soltanto una valigia appoggiata alla porta, così sola, abbandonata, così chic e così firmata: le iniziali di lei.

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Ci pensi mai che gli alberi si spogliano ai primi freddi?

Che ne sai tu della mia gioia, dei deserti di sale, della solitudine a cavallo di una moto e del rumore del mio respiro. Che ne sai tu di quando mi sdraio sulla schiena, apro le braccia, il vento tra i peli delle mie gambe e poi sulla punta del naso. I raggi del sole che si incastrano tra le palpebre e i prati erbosi del nord. Che ne sai tu dei canali di sfogo delle mie dita. Che ne sai del colore dell’ultimo pomeriggio di luglio, dei fiori in tripudio, degli inchini dei girasoli e degli aerei da perdere per un bacio d’addio. Che ne sai delle crepe sui miei capelli. Degli abbracci notturni al cuscino. Della nascita del mio neo sulla guancia sinistra. Dei punti di sutura della mia pelle, che ne sai? L’addio alle armi dei miei approcci invadenti. La cruda verità del tramonto dell’età prima. Dei pantaloni corti intrisi d’estate. Lascerò perdere le imminenze, gli scandali della buona coscienza e tutti i vetri rotti che porto tra le dita dei piedi. Le ferite del mio sentire e il desiderio della scaltrezza, per cavalcare i marosi dell’insipienza, le onde lunghe della non violenza e quella retorica di abbracci e sorrisi. Il bianco e nero mi ricorda i film degli anni sessanta e le pubblicità di Benetton col desiderio di scandalizzarci che è diventato abitudine, odiosa ricorrenza ai crocicchi di città. Chissà dove si nascondono i denti mancanti dei nostri vecchi. Chissà come sarà quando invecchieremo e sarai costretta ancora a inginocchiarti sul mio membro, dormirò sul tuo seno e tra le pieghe delle tue mani pianterò semi nuovi per il tempo a venire. Per le nostre gioventù accese e il nostro ardere. Perdiamo in foglie in vestiti leggeri, sul pavimento si accumulano in gocce le nostre interiorità. Ci pensi mai che gli alberi si spogliano ai primi freddi?

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Il baratto

Tutto questo deserto mi fa venire voglia di tornare a casa. Voglio una donna, la solitudine mi ammazza. Parlava così Ricky Belfante al riparo di un’amaca in corda colorata, la sigaretta accesa, i capelli ossigenati e gli occhiali da sole bordati di rosso a decorargli il volto.

Ci sono io, rispondeva il Gliss, non ti basto? Forse ti sei sognato la francesina di ieri.

Suonava un violino il cercatore d’oro che aveva scambiato i suoi attrezzi, e intendo pala, setaccio ed un secchio con lo strumento solo poche ore prima. L’aveva deciso in pochi istanti, si era fermato davanti alla bancarella di cianfrusaglie usate davanti alla chiesa bianca, parlava con Jorge, il venditore tondo, che gli aveva offerto un sorso della sua birra e lo aveva informato del nuovo arrivo in legno. Le dita grosse e forti desideravano leggerezza per gli anni a venire e i sessant’anni sulla schiena non permettevano più giornate intere genuflessi davanti al dio ricompensa. Così Manuèl “testa grossa” aveva deciso di cambiare vita, che tanto a lui il denaro non era mai interessato, si diceva in paese, quello era un burbero che non parlava con nessuno e giocava a fare il cercatore d’oro soltanto come scusa per lasciare sua moglie sola a casa tutto il giorno e vederla di notte quando il buio confonde i contorni e ci si potevano dare anche due colpi tra le natiche per ubriachezza.

Un suono acuto bussò alle orecchie di Paolo Glissoli, detto il Gliss, trentenne di madre milanese e padre brianzolo, studente in filosofia, la barba poco curata a decorargli il mento e quelle bluse in cotone che non capisci dove finiscono le maniche. 

La senti Pacha Mama?

Ricky Belfante si tolse gli occhiali, raddrizzò il busto cercando di mantenere l’equilibrio, rispose: Mi stai dicendo che hai voglia di fumare?

Ti sto dicendo che la terra ci sta parlando, lo senti questo suono?

A me sembra un violino suonato male. Sembra impossibile, ma è così, o magari sono le francesi di ieri notte che si sono messe a suonare i bicchieri. 

Impossibile. Mentre baciavo Julie lei mi ha detto che non poteva restare per la notte, che avrebbero preso un bus, le francesi se ne sono andate, lo so bene perché non ho scopato.

Era brutta forte.

Siamo nel deserto. Non me ne importa più nulla della bellezza.

Contento tu. Senti, vado a cercare il colpevole di questo strazio.

Lo sai che mi ha detto che piacevi a Chloè? Ti piaceva, vero, Chloè? Perché non ci hai provato?

Troppi pensieri.

Segaiolo. Lo so che ti piaceva, dovevamo farle rimanere, quegli americani figli di puttana se le sono trascinate via con la scusa di un passaggio. Come se non esistessero i bus, mi stai ascoltando?

Ricky smontò dall’amaca, questa si arrotolò su se stessa e poi riprese la sua forma originaria. Un gatto accoglieva il sole con gli occhi chiusi mentre due cani infilzavano in naso tra i sacchi dell’immondizia.

I piedi nudi del nostro si coloravano di terra, aprì con un gesto sicuro il cancello in lamiera che circondava l’ostello e si ritrovò sulla strada. Il sole cavalcava il cielo e puntava forte gli speroni.

Nel paese c’erano due vie, una chiesa e case colorate e cortili. Dentro i cortili, tra lamiere metalliche sfrigolavano le griglie e un fumo denso s’alzava verso le nuvole bianco panna.

Il silenzio accecava la piazza principale, davanti alla chiesa. Soltanto il suono delle stoviglie poteva far pensare che il paese fosse abitato.

Ricky seguiva la scia del suono di violino, questo ogni tanto cessava, poi riprendeva forte e si modulava in pochi secondi. Era passato dal fastidio al fascino. Non era un suono decodificabile, ma di certo non lo disturbava come quando stava supino tra i ricordi di casa e il desiderio della pasta di mamma.

Arrivato sulla piazza della chiesa percepì che il suono era lì, chissà dove però, i riflessi del sole contro le lamiere intorno gli bombardavano gli occhi e a nulla servivano gli occhiali rossi comprati al mare di Rimini due settimane prima. 

Girò su se stesso due volte, il suono era nascosto bene. Decise di girare più forte, poi più forte ancora, rideva tra sé quando perse l’equilibrio e cadde sulla terra. Perse gli occhiali, le mani sanguinavano un poco sul palmo. Rimase seduto, si tirò qualche pacca sui pantaloni per spazzare via la terra. 

Si rese conto di aver cominciato a girare perché il suono gliel’aveva consigliato. E mentre girava s’era fatto più veloce e più veloce ancora ed era come se fosse quello a decidere quando doveva lasciarsi andare e cadere sulla sabbia.

Nessuno venne ad aiutarlo ad alzarsi, fece forza sugli avambracci e si rimise in piedi. Poi si leccò i palmi della mani mentre coi piedi strofinava ancora i pantaloni come fanno i cani per il fastidio delle zecche.

Un uomo lo osservava dall’alto del tetto della chiesa. Era in piedi, il violino nella mano destra e l’altra aperta in saluto che si agitava in direzione del nostro. Riuscì ad attirare l’attenzione di Ricky e quando fu certo di avere il suo sguardo fece forza sui polpacci e si lanciò giù dal tetto della chiesa, atterrò su entrambi i piedi e poi fece una capriola per ammortizzare. Si presentò davanti al Belfante, gli mostrò il violino, disse: Che ne dici?

Ricky non rispose nulla, prese in mano lo strumento. Si accorse che non aveva corde mentre pensava che era insolito vedere un uomo di sessant’anni gettarsi dal tetto di una chiesa e atterrare in capriola.

Manuèl gli fece segno di seguirlo e si ripararono all’ombra del portico davanti al portone della chiesa.

Allora ti piace o non ti piace?

Ma tu sai l’italiano?

Certo.

Parlava lentamente, con accento sudamericano, ma non sbagliava una parola.

L’ho imparato sul fiume, cercando l’oro.

Cerchi l’oro tu?

Fammi finire.

Hai mai sentito parlare di Giulio Marrino? Ora puoi rispondere. Rispondi.

No.

Giulio Marrino è famoso in Italia. Tutti conoscono Giulio Marrino, tu non conosci Giulio Marrino?

No.

Allora non sei italiano. 

Certo che sono italiano.

Giulio Marrino ha fatto il calciatore, poi l’attore, poi ha presentato un programma in televisione, poi ha cantato una canzone in India ed è diventato famoso.

Mi spiace, non lo conosco.

Beh, alla fine ha mollato tutto ed è venuto con me a cercare l’oro. E’ per questo che so l’italiano. Me l’ha insegnato lui. Mi ha insegnato molte cose Giulio.

Vi siete conosciuti qui?

In un bar di Istanbul. Prima di fare il cercatore d’oro non lavoravo.

Come ti mantenevi?

Parlando con la gente. Come adesso con te. 

E cosa ci si guadagna a parlare con la gente?

Io ora dò qualcosa a te e tu dai qualcosa a me. Si può guadagnare molto parlando con la gente. Più che cercando l’oro.

Cosa credi possa darti io?

Non lo so. Non è importante.

Mi sembra una roba tipo di chiesa, non è che fai il prete?

Manuèl scoppiò a ridere. Disse:

Puoi ridarmi il violino ora, visto che non lo suoni. Avrei preferito che tu lo suonassi.

Complimenti per i congiuntivi.

Lo so.

Non si può suonare un violino senza corde.

E il suono che ti ha spinto qui?

Credo fosse il vento tra le lamiere.

E perché ora non lo senti più?

Non lo so.

L’uomo gli strappò di mano lo strumento e lo portò davanti alla fronte, poi con due mani lo presentò al cielo e cominciò una strana danza sul posto non spostando mai le gambe da terra.

Ricky fu costretto a coprirsi le orecchie, il suono era acuto. Dalla piccola cassa armonica si sprigionava una forza straordinaria, l’uomo orchestrava il vento, lo cercava, si faceva accompagnare dal suo soffio, ospitava lo sbuffo e lo trasformava in suono.

Urlò per farsi sentire: posso insegnarti se vuoi.

Ricky teneva le orecchie riparate, fece di no con la testa.

Manuèl abbassò il violino, il suono cessò di colpo.

Afferrò il Belfante per la maglietta e lo strattonò forte portandolo verso di lui. Testa contro testa, alitò sulle sue belle labbra: Ora hai un debito con me?

Quale debito? Tu sei pazzo.

Quando dite pazzo è perché non riuscite a capire. Anche Giulio mi chiamò pazzo la prima volta. Non aveva capito niente di me.

Sei pazzo.

L’uomo gli mollò uno schiaffo in pieno volto.

Hai finito di dire che sono pazzo? Mi ferisci così.

Ricky ebbe voglia di reagire, poi pensò alle mani dell’uomo, così grandi e forti. Quello schiaffo non gli aveva fatto male, doveva aver dosato la forza, era servito perché lo prendesse sul serio e con qualche timore.

Avevi voglia di tornare a casa. Portati a casa questo suono, è stato capace di farti alzare dal tuo sonnecchiare. Te lo regalo, eccolo.

Porse il violino senza corde a Ricky e allungò l’altra mano col palmo all’insù. La lasciò a mezz’aria in attesa di ricevere qualcosa.

Non è un regalo se ti devo dare qualcosa in cambio.

Ti ho anche fatto ballare, ricordatelo.

Mi hai fatto cadere, guarda le mie mani.

Sono vuote.

Sono ferite.

Allora qualcosa da darmi ce l’hai. Mani ferite sono mani piene si dice tra noi cercatori d’oro. La mano bianca è una mano da temere.

Posso darti i miei occhiali, li vuoi?

Li voglio.

Non usarli troppo, ti faranno male agli occhi.

Li scambierò domani con i miei attrezzi da lavoro. C’è la bancarella di Jorge qui al mattino, puoi barattare quello che vuoi.

Vorrei barattare questa mia malinconia.

Oh, mio caro, con quella non c’è storia.

In che senso?

Quella te la devi tenere. Cazzi tuoi, si dice così?

Cazzi miei, sì.

Io vorrei salutarti ora, devo tornare da mia moglie. E’ brutta mia moglie. Non sposare mai una donna brutta non farà altro che aumentare la tua malinconia.

Tu sei malinconico?

Può darsi, non sono triste però.

Triste è peggio di malinconico.

Triste è essersi arresi alla malinconia. La gioia è un istante, la malinconia una sensazione costante che dà accesso alla gioia come alla tristezza, è quel vento che puoi modulare con un violino buco.

Che stronzata. Io se potessi scegliere sarei felice.

Sceglilo. Me ne vado.

Me lo dici se sei un prete?

Hai un buon intuito tu, dovresti lavorarci.

Bastardo.

L’uomo fece l’occhiolino. Poi strinse la mano sanguinante di Ricky, inforcò gli occhiali dalla montatura rossa, infine disse: salutami Giulio Marrino quando torni in Italia.

Aprì la porta della chiesa e la chiuse dietro di sè.

Il Belfante rimase col violino in mano, sul portico. A passi lenti tornò dal Gliss, lo trovò seduto su un gradino davanti alla porta di casa. Fumava roba. Disse: Julie e Chloè tornano qui, sono sul bus. Gli americani hanno cercato di farsele, si sono spaventate. Dormono da noi stanotte e proseguiamo insieme fino alla capitale. Bella storia, no? L’ho fatto per te, ragazzo, così prendi il coraggio e ci provi con Chloè. Rick, mi stai ascoltando? Che cazzo ci fai con un violino in mano?

Suono, suono la mia malinconia, che non me la posso tenere tutta per me, da qualche parte dovrà pur finire, no?

Che cazzo dici? Andiamo a cercare dei goldoni, piuttosto.

Ricky Belfante aprì le gambe distanziandole all’altezza del bacino, appoggiò forte i piedi a terra, prese il violino tra le mani e lo issò sopra la fronte, poi cominciò a muoversi in danza cercando di cogliere il vento.

Silenzio.

Poi un urlo squarciò il cielo bianco: Bastardo ci sarai tu, balla, ragazzo, coraggio!

E suono di campane.

E muri bianchi, fumo di griglia, stoviglie lavate.

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Piccolo io

Quelle montagne rosse che disegnavamo con gli uni posca sui muri fragili dell’oratorio. Verrà un giorno verrà che ci faremo grandi, le cosce sode dei calciatori e tatuaggi maori. E la coccarda dei diciott’anni, una firma in pennarello nero su plastica rosa, il nostro permesso per gli spostamenti senza mamma e papà. Quattro posti, il cinquantino in garage. Vai piano, mi raccomando, non bevete, e ci sono ragazze?

Con Jovanotti che non s’annoia nello stereo, i nostri capelli corti sui lati e i cappellini con la visiera larga. Gli occhiali da sole comprati dai neri del mare, troppo abbronzati per concedersi il riposo della spiaggia.

La nostra prima volta a milleottocento metri.

L’hai fatta la spesa? Ho preso la pasta e il sugo. Sai cucinare tu? Io sì, mia madre a casa non c’è mai. Mal che vada ci facciamo i quattro salti in padella. Quattro salti vorrei farli sulla Vale, io. E parlavamo delle nostre fottute compagne, i voti alle loro mammelle sode, i culi onesti tendenti al tondo. Ci dicevamo quelle del classico son tutte suore. Una mia compagna si fa uno di quarant’anni. Ti rendi conto?

E indossare felponi e cappuccio, ascoltarsi l’hip hop e fare la gara a chi beve più birra, se chiama mia madre non rispondo, non ci sto dentro. E’ la quarta ragazzi, io non bevo più, domani ci alziamo presto, il noleggio apre alle sette.

La sveglia a dirci no, non perdetelo il tempo, ragazzi; le colazioni infinite coi biscotti del mulino felice e le velleità nella preparazione del caffè scorretto.

Andiamo a prendercele le montagne, che abbiamo forza e curiosità d’andare.

I caschetti aerodinamici con le figurine dei calciatori. Baggio al Milan è coraggio, ci è rimasto quel ragazzino coi capelli ricci e il gol d’esterno destro alla Fiorentina, quello è un campione, vedrai, capirai.

Le nostre divise aderenti in materiale traspirante, che siamo pronti per la lotta col fiato, le salite lunghe delle Dolomiti e i ricordi delle bandane gialle del Marco nazionale tra i nostri capelli.

E via a pompare sui polpacci, teniamo il ritmo cadenzato dei passisti, i rapporti duri dei fisici snelli e il più leggero per gli inesperti che macinano mulinelli con la velocità delle nuvole al vento e sotto le ruote inghiottono la strada.

Ci facevamo le telecronache imitando la voce inconfondibile di Adriano De Zan, e poi scattare e poi il tornante, tirare il fiato, cambiare marcia e su, sui pedali, la borraccia e l’acqua sul collo e dietro sempre io, io che ansimavo, i chili di troppo sui fianchi e il sudore a lucidare la linea bianca al lato della strada.

I clacson delle auto per le grigliate in quota dei turisti e gli incoraggiamenti a sfottò dei bambini appollaiati sui finestrini.

Vedevo soltanto il culo dei miei compagni di scalata, le andature sempre uguali, sui tornanti si alzavano sui pedali e guardavano indietro per accertarsi della mia presenza. Rallentavano, mi aspettavano, fa caldo, lo sai? Ce la fai?

L’orgoglio della maturità appena guadagnata, non mi aspettate, vengo su del mio passo altrimenti scoppio e non salgo più, ci vediamo in cima.

E appoggiare gli occhiali sulla fronte e perdere il contatto coi culi sodi degli amici.

Io, me e la strada e il chiedermi perché, perché misurare quel che sono tra le strade impervie di questo Pordoi che sembra toccare il cielo. La prima neve, guardare per terra e contare le pedalate, un due tre, un due tre, la lunga marcia e lo sguardo fisso alla linea della strada.

Dai, dai, dai, ce la fai.

E il cartello dell’altitudine, qui scollina è finita; gli amici stesi sull’erba, le braccia alzate, ce l’ho fatta, uno di voi, uno di noi.

Far festa in abbracci lunghi, una birra fredda e riempire la borraccia nelle cascate naturali che piscia la montagna.

E ora già, la discesa, non servon gambe, soltanto dita, attenzione e vento tra i capelli, siamo così vivi che possiamo andare ovunque con la sola forza del nostro corpo. Altro che Americhe è tutto qui quello che stiamo cercando, noi e solitudini spinte, libertà e desiderio di conoscenza.

E giù a perdifiato, la gamba in dentro per i tornanti, solleticare il freno e urlare forte la gioia della velocità.

Sono davanti, per una volta primo, il peso serve, non ho paura, vi dimostrerò ancora una volta che ci sono anche io, anche se peso novanta chili, anche se non ho mai baciato una ragazza, sarete orgogliosi di me, amici miei, sù, piega, dai, il rapporto più lungo, dai ritmo ai pedali in rettilineo e poi frena, piega, e ancora pedala.

Una buca, la ruta davanti che rimbalza, il manubrio si muove, un’altra buca. Porca puttana urlano dietro. Trattengo il fiato, addio mia giovinezza. A scivolare sul casco, la pancia a terra, il sangue, lo spavento. Rosso e bianco sulla mia schiena e sassi nell’incavo del palmo delle mani. E’ finita così. Rimango a terra. Apro gli occhi piano, come stai? Ti fa male? Porca puttana si sente ancora. Le auto ferme, chiamiamo un’ambulanza. Non vi preoccupate, respiro ancora, non ho rotto nulla, soltanto il casco, lo zaino ha attutito la caduta, mi son sbucciato la pancia, non mi era mai successo di sbucciarmi la pancia, sanguino un poco, è grave? Non so, credo di no. La bici è rotta, le ruote spezzate, la pagheremo, sei salvo, ti aiuto.

E dopo il letto, ma che spavento, però cammini, ti è andata bene.

In farmacia disinfettante e antidolorifico, sarai nuovo, certo che sei sfigato. Manca una settimana, che farai?

Gli amici in sella, i miei risvegli nel cuore del giorno, le colazioni interminabili e le televendite per le cosce sode delle modelle. Le mie nuove masturbazioni in altitudine e odor di casa e noia.

Mi son sbucciato la pancia, mamma, ti rendi conto, la pancia?

Stai bene?

Come sempre.

Curati piccolo mio.

 

Piccolo io.

 

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