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Abbracciare cortecce

Le fiamme e il camino acceso, i tuoi occhi così neri e tutte le voci che ci circondano. Suona un giradischi ignorato dai più, le nonne in poltrona tengono il tempo con mano nodosa.

Gli anni dedicati alle solitudini riempiono lo spazio di attenzioni all’essenziale. Un fazzoletto asciuga l’occhio che troppe ne ha viste e si abbandona al ricordo.

Proiettano film nelle menti anziane, fioriscono i racconti e sporcarsi le labbra è un inno all’infanzia. Così ripetersi in domande e cancellare i presenti, arriva un momento in cui non c’è più tempo per confrontare le età, si riempie lo spazio in abbracci e contatto di sguardi, ci si ripete sei bello sei bella senza fatica, senza bisogno di estetiche.

Sarà che il vento si infilza sotto le porte e trascina lo sguardo fuori dalle finestre, immagino uomini nascosti dietro agli alberi dei boschi, abbracciare cortecce e pregare in lingue sconosciute l’erba dei prati e le nuvole in cielo. Dare un nome alle rocce e nascondere domande sotto alle maree per riaverle in estate. E appendere ai rami dell’albero più alto i nostri cappelli invernali, lasciare la nuca al respiro della terra e cercare gli angeli nascosti tra la neve, le urla dei bimbi che ritornano a casa, le scuole chiuse per sempre e ritrovarsi incoscienti: il gomito appoggiato sulla tavola, le guance rosse e il bicchiere pieno.

I tuoi colori eletti: bianco, rosso e panni morbidi, il cashmere e le foto dei viaggi. Non riesco più a pensare a me, non mi rado la barba da giorni, il letto è sfatto. Le immagini del disordine affascinano le adolescenti, non serve a nulla in maturità. Il tempo misurato dei gesti, il silenzio che precede la parola, le tavole apparecchiate, il vino buono e posti scelti. Dovremmo costringerci ad arrampicarci sulle chiome degli alberi con gli occhi, lo sforzo del collo e il mento che risale la perpendicolare allo sguardo. E aprire le braccia per accogliere i giorni, ricordare alle città che sono nate sui prati e nascondono fiumi, così anche noi, e il tuo primo ricordo? Diventeremo scheletri e suoneranno le nostre vertebre i vermi. E’ tempo di far pace con la terra, tornare a sentirne il profumo e sporcarsi le dita. Disegnare sui muri le nostre silhouette primitive e far esultare il corpo nei versi che ti abitano da sempre e che ancora non riconosci tuoi.

Gettare i chissà sul fondo delle cascate o dei lavandini, gli schizzi freschi per il risveglio dai nostri sonni lunghissimi. Così vivi, così presenti, la rivoluzione dei respiri, e le grotte che trasformano le nostre parole fino a farci eco, quando travisare il senso è soltanto un richiamo allo spazio e libertà di cieli e montagne innevate.

Foto: dalla rete.

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E’ pronto il caffè

Frasi lunghe a ripeterti che non mi interessa l’amore ricevuto, che ho armadi zuppi di vestiti e tasche piene, sono essenziale, lo sai, e non chiedo riconoscenza. Come quando inviti qualcuno a cena, che non ti interessa cosa ti porta e se viene a mani piene, bussa coi piedi, perché tu prepari tutto e vuoi che stia bene lui, vuoi stare bene tu, lasciare andare la lingua, distendere le guance, farsi rossi di vino e non disdegnare la carezza della mezzanotte e magari il profumo buono dei tuoi sette colli,  niente più. E’ dell’indifferenza che non me ne faccio nulla, i miei sono inviti a cena, basta esserci, nient’altro. Che non sono manie. E se questo mondo insegna che non si fa nulla per nulla, che non c’è gratuità nelle offerte dei centri commerciali, nel ritorno d’immagine delle multinazionali e nei gadget personalizzati, tu prendi la via del verde, trova una panca, resta a guardare. Le cure delle madri agli infanti che domandano in continuazione e nulla sanno del valore dei soldi e della lordura che li accompagna. Dai, lavati bene le mani, vieni a tavola, è tutto pronto. C’è una donna con lunghi capelli rossi e vestiti neri nel centro di Milano che prepara cene grandi e il suo uomo dal bianco pennacchio che indossa ogni sera un giubbotto e ascensori e piani di scale, minestre calde e polpette scelte per anziane solitudini. Che in vecchiaia non si chiede più, s’aspetta, e nella corsa il quotidiano non s’accorge dei silenzi. E poi come va? Facciamola andare. Le signore ai fast food chiedono parole di compagnia e tè caldi per dar tregua al vuoto della bocca. Vorrei bussare alla tua porta, dirti che c’è, com’è? Prendo un caffè. E osservare quelle tazze antiche e il loro tintinnare, l’attenzione nei gesti e il senso raro dell’ospite. Ho portato le birre, accendo la musica, fumo una paglia. E neanche ti ascolto. E’ così che a notte fonda scrivo lettere e mando email, è così che l’assenza di risposta, in fondo, non mi pesa. Ma vieni a bussare, buon pomeriggio, è pronto il caffè.

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Le erezioni dei grattacieli costringono il nostro sguardo al cemento

Tu, vecchia prima di diventarlo.

Le braccia gonfie e i bracciali d’argento.

Le frequentazioni lontane dalle tua giovane età, i salotti e i palazzi.

Io, cameriere, anima avida e vinta,

spinto alla giovinezza dalla morte gravida del futuro prossimo,

io, ancora scrivo per te versi,

dimenticando che hai perso la vista.

Già i vermi colorano l’incavo delle tue pupille,

non passo veloce, non ubriachezza estiva

capelli vergini di sperma

e ochette consumate dal cloro

nella tua grande vasca bianca,

affoghi tu

con le utopie, il revanscismo e quella finta autorità della mano alzata.

Le rivoluzioni di piazza son tempi andati,

le tende che lasciamo ai bordi delle autostrade,

vittime le nostre emozioni della banalità del pastello.

No! Non così, donna, illudo i miei giorni

col sogno che altro non è che sonno.

Non c’è quiete nelle mie notti,

non c’è riparo da questa folla urlante

i pensieri, gli umori degli altri,

questa verità che non è degna di nomi comuni.

Salirò a piedi nudi sul tuo ventre e salterò aggrappandomi al cielo

vomiterai le interpretazioni,

le vecchie rivoluzionarie milanesi,

teatranti morte come gli edifici statali per l’invecchiamento della parola detta.

Le nostre voci soccombono ai ruggiti degli abiti corti,

le erezioni dei grattacieli

-vergogna!-

costringono il nostro sguardo al cemento

non vi è più cielo,

non vi è più grido che possa arrivare oltre l’umanità del ferro.

L’oro cerchiamo

tra le parole che mi vieti

il mio grido è morte in petto

si perde nei vicoli di Brera e palpa i culi molli delle cartomanti.

Guarda le carte e strappale,

al tempo dei giochi ritorna,

corri sul fiume,

le mammelle in vista,

corri sulla strada e non salutare i passanti,

non degnare del tuo sguardo i semafori

non perdere le tue lacrime per il riconoscimento degli altri.

Le tue immagini sono vive,

vivi anche tu, te ne prego,

basta sorrisi di circostanza,

spoglierei io le labbra gonfie delle tue amiche in putrefazione,

le penne scariche degli amanti dei quotidiani.

Là nelle tue afriche,

nelle tue americhe,

la gente tende le mani alle nuvole e scarica pioggia sull’occidente dei nostri pianti incerti.

Là, te ne andrai per i sentieri,

qui

felice un giorno. Felice.

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