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Di tetto in tetto, di cielo in cielo

Stormi di neri, di tetto in tetto, di cielo in cielo. A raccogliere fumo bianco dai comignoli, scongelare il becco e tornare al canto. Dietro la schiena i lividi prati che circondano i nostri ovest e muri bianchi fatti per dividerci. Così proponevi una birra, tutti distesi dietro alla luce artificiale del televisore, consumavamo il tempo delegando il pensiero ai racconti fantastici degli effetti speciali. Svegliarsi presto per guardare l’alba delle città industriali, chiedersi che ce ne facciamo del tempo quando il riposo è un’arte per pochi.

Vorrei accarezzarti le dita, appoggiarle alle mie spalle, avvicinarle alle labbra e scriverti con la lingua le iniziali inventate di una storia mai cominciata. Ti siedi a gambe incrociate, io guardo dalla finestra, sbuffi tu, sbuffo anch’io, la neve fuori rende onesti i silenzi e il suo disfarsi tra i polpastrelli concede meraviglia.

Tra le travi in legno e il soffitto stanno incastrate le frasi dei libri che non abbiamo ancora letto, scendono il pomeriggio a illuminarci gli occhi, ad allargare il cuore.

Suonano intanto i carillon e non sai mai riprodurne la melodia, prendono i nostri nervi e li stendono come si fa con la pasta all’uovo, ci lasciamo scivolare sui letti con gli occhi semichiusi, il sorriso accennato.

E così il sole fa il suo, si sciolgono i ghiaccioli aggrappati alle grondaie e ticchettii allegri sulle strade, cappelli colorati e pelo, il primo ghiaccio a ricordarci l’equilibrio.

Ed ora ascolta le canzoni della tua adolescenza, stringi le gambe e allenta i primi bottoni della camicia. Vibrano le tue costole e ti chiedono intrecci, mentre c’è gente che ancora fa la fila per lavare l’auto e si preoccupa del tempo che non lascia impronte, tu aspetti i daini e l’imbrunire, apri il quaderno e scrivi: “Che cos’hai? Mancanza.” e poi Wim Wenders e immagini il Cielo sopra Berlino ti dico non serve, mi chiede se ha senso ragionare così.

Foto: Nicoletta Branco.

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Foto:

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Abbracciare cortecce

Le fiamme e il camino acceso, i tuoi occhi così neri e tutte le voci che ci circondano. Suona un giradischi ignorato dai più, le nonne in poltrona tengono il tempo con mano nodosa.

Gli anni dedicati alle solitudini riempiono lo spazio di attenzioni all’essenziale. Un fazzoletto asciuga l’occhio che troppe ne ha viste e si abbandona al ricordo.

Proiettano film nelle menti anziane, fioriscono i racconti e sporcarsi le labbra è un inno all’infanzia. Così ripetersi in domande e cancellare i presenti, arriva un momento in cui non c’è più tempo per confrontare le età, si riempie lo spazio in abbracci e contatto di sguardi, ci si ripete sei bello sei bella senza fatica, senza bisogno di estetiche.

Sarà che il vento si infilza sotto le porte e trascina lo sguardo fuori dalle finestre, immagino uomini nascosti dietro agli alberi dei boschi, abbracciare cortecce e pregare in lingue sconosciute l’erba dei prati e le nuvole in cielo. Dare un nome alle rocce e nascondere domande sotto alle maree per riaverle in estate. E appendere ai rami dell’albero più alto i nostri cappelli invernali, lasciare la nuca al respiro della terra e cercare gli angeli nascosti tra la neve, le urla dei bimbi che ritornano a casa, le scuole chiuse per sempre e ritrovarsi incoscienti: il gomito appoggiato sulla tavola, le guance rosse e il bicchiere pieno.

I tuoi colori eletti: bianco, rosso e panni morbidi, il cashmere e le foto dei viaggi. Non riesco più a pensare a me, non mi rado la barba da giorni, il letto è sfatto. Le immagini del disordine affascinano le adolescenti, non serve a nulla in maturità. Il tempo misurato dei gesti, il silenzio che precede la parola, le tavole apparecchiate, il vino buono e posti scelti. Dovremmo costringerci ad arrampicarci sulle chiome degli alberi con gli occhi, lo sforzo del collo e il mento che risale la perpendicolare allo sguardo. E aprire le braccia per accogliere i giorni, ricordare alle città che sono nate sui prati e nascondono fiumi, così anche noi, e il tuo primo ricordo? Diventeremo scheletri e suoneranno le nostre vertebre i vermi. E’ tempo di far pace con la terra, tornare a sentirne il profumo e sporcarsi le dita. Disegnare sui muri le nostre silhouette primitive e far esultare il corpo nei versi che ti abitano da sempre e che ancora non riconosci tuoi.

Gettare i chissà sul fondo delle cascate o dei lavandini, gli schizzi freschi per il risveglio dai nostri sonni lunghissimi. Così vivi, così presenti, la rivoluzione dei respiri, e le grotte che trasformano le nostre parole fino a farci eco, quando travisare il senso è soltanto un richiamo allo spazio e libertà di cieli e montagne innevate.

Foto: dalla rete.

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Ci pensi mai che gli alberi si spogliano ai primi freddi?

Che ne sai tu della mia gioia, dei deserti di sale, della solitudine a cavallo di una moto e del rumore del mio respiro. Che ne sai tu di quando mi sdraio sulla schiena, apro le braccia, il vento tra i peli delle mie gambe e poi sulla punta del naso. I raggi del sole che si incastrano tra le palpebre e i prati erbosi del nord. Che ne sai tu dei canali di sfogo delle mie dita. Che ne sai del colore dell’ultimo pomeriggio di luglio, dei fiori in tripudio, degli inchini dei girasoli e degli aerei da perdere per un bacio d’addio. Che ne sai delle crepe sui miei capelli. Degli abbracci notturni al cuscino. Della nascita del mio neo sulla guancia sinistra. Dei punti di sutura della mia pelle, che ne sai? L’addio alle armi dei miei approcci invadenti. La cruda verità del tramonto dell’età prima. Dei pantaloni corti intrisi d’estate. Lascerò perdere le imminenze, gli scandali della buona coscienza e tutti i vetri rotti che porto tra le dita dei piedi. Le ferite del mio sentire e il desiderio della scaltrezza, per cavalcare i marosi dell’insipienza, le onde lunghe della non violenza e quella retorica di abbracci e sorrisi. Il bianco e nero mi ricorda i film degli anni sessanta e le pubblicità di Benetton col desiderio di scandalizzarci che è diventato abitudine, odiosa ricorrenza ai crocicchi di città. Chissà dove si nascondono i denti mancanti dei nostri vecchi. Chissà come sarà quando invecchieremo e sarai costretta ancora a inginocchiarti sul mio membro, dormirò sul tuo seno e tra le pieghe delle tue mani pianterò semi nuovi per il tempo a venire. Per le nostre gioventù accese e il nostro ardere. Perdiamo in foglie in vestiti leggeri, sul pavimento si accumulano in gocce le nostre interiorità. Ci pensi mai che gli alberi si spogliano ai primi freddi?

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