Non mi hai ancora detto smettila di scrivere di me. La voce di mamma, le pale del ventilatore e tu che stai in fissa cercando un’idea per combattere la noia, quando ti metti a favore dell’aria i tuoi capelli prendono il volo, ti chiedi dove se ne vanno, se se ne vanno e chissà com’è vivere sopra di te. Dal piano di sopra qualcuno sbatte forte le scarpe contro il pavimento che poi per te è il soffitto, è un bel ritmo per la tua chitarra così muovi le unghie colorate e ti fai voce e pensi che prima o poi anche loro apprezzeranno, che prima o poi tutto si avvera, che prima o poi smetterai di dirti prima o poi perché sarai quel poi. Sulle strade le sirene delle autoambulanze e dossi dappertutto per i nostri sbalzi d’umore. Così se ieri eri vicina oggi sei lontanissima. Ci diciamo sempre dove andiamo e mai cosa facciamo forse per paura di dire soltanto: niente. Oggi non ho fatto niente. Siamo qualcuno anche quando restiamo inoperosi perché il pensare, lo sai, è già azione. Arriviamo a sera stanchissimi e non riusciamo a prendere sonno. Tengo il cellulare tra le mani per farmi luce e leggo le notizie del giorno, i commenti alle notizie del giorno, le ironie sulle notizie del giorno. Io nemmeno lo so quanti sono cinquecento anni luce, ma su Kepler 186 F ci arrivo con l’immaginazione e penso, penso a come sarebbe il mondo che abbiamo immaginato insieme. Come tutte quelle volte che ci siamo parlati e tu non c’eri, come tutte quelle volte che ti ho vestita e vestita eri già, come tutte quelle volte che ti ho spogliata e già ansimavi. Tutto è relativo, gli universi paralleli e bla bla bla, io non ci capisco nulla e costruisco teorie fatte di vuoti da riempire. Pensa alle bottiglie di plastica. L’adolescenza dell’immaginazione quando finirà? Mi chiedi. Fai una cosa giusta, prendi la valigia e vieni, dimentica la valigia e vieni, chisseneimporta, l’importante è che vieni. Quante volte ti ho detto che il viaggio ti insegna che tutto è superfluo? Che basta il passo, le scarpe e una meta, che senza quella non si è da nessuna parte e un conto è non fare nulla e un conto è non essere da nessuna parte. Non ho imparato niente. Perché il luogo, lo sai, il luogo è importante, ti ho detto. Di che colore sono le tue pareti, oggi? Di che colore sono le tue gambe oggi, quanti altri lividi dei colori del tramonto punteggiano la tua pelle? Non ora, qui, mi hai detto. Ho bisogno di sentirti, non chiamarmi. Ho bisogno di scriverti, scrivimi il meno possibile tanto lo sai che rispondo soltanto se mi va e spesso non mi va. Perché, mi chiedo io, perché in presenza è tutto così semplice? Prendimi gli occhi e baciami forte tutta la notte, il giorno e il giorno dopo ancora, oppure girami intorno o intorno ti giro io, come davanti al ventilatore si confonderanno i nostri capelli. A cosa servono i satelliti se non a far sentire meno soli i pianeti? Ma non basta, dovremmo toccarci, credo io, è quello che muove l’universo, il desiderio di fusione che la vicinanza impone, se succedesse sarebbe un boom un boom boom boom, un uauauauo e l’universo scoppierebbe e scoppierei anche io e chiuderesti gli occhi tu, dilateresti le dita dei piedi e poi rimbalzeresti, stremata, sulle lenzuola sudate.
Foto: © Jo Straube