La nostra fortuna

Mi scrivi ho camminato a lungo fino a non averne più, chilometri e chilometri in compagnia dei campi di grano che fanno dello sguardo oro e pensieri di luce e milioni e miliardi di pensieri, scie luminose di mosche e ragnetti, com’è tutto confuso qui, come posso isolare un’idea dalle altre, quel che mi rimane è il corpo e va sfiancato, perché finalmente io dorma e mi senta appagata del giorno, contenta dell’essere arrivata sana e salva e farmi accarezzare dal vento e attendere la notte come un pasto caldo. Dimenticarsi del tempo è cosa semplice, dici, e confondere i giorni, i numeri e tutte le vite passate. In tutto quell’esercizio di gambe e di fronte sudata c’è la tua sfida al buio, io cerco il sole, dici, fatico a comprenderlo lo sai, io che trascorro ore persiane chiuse e luci artificiali, camicie aperte fino al terzo bottone, cuscini sudati e citazioni di questo o di quell’altro per cercare di dar forma alle intuizioni della sensibilità. E mentre intorno tutto si muove, tutti si muovono, tra Bali e il west, gambe nude e cannucce nel cocco, alzo le mani per abbracciare la vita del qui e dell’adesso, non preoccupandomi del male, delle preoccupazioni future dell’inevitabile dolore dei giorni. E mentre tu, lassù o chissà dove, sei estate eterna, spiga fiorita in pane, io sono autunno di foglie, lacrime calde a bagnare il terreno, dei fuochi oltre la collina l’odore di cenere e poi il vento a confondere i capelli, il gusto aspro della vite, il dolce dei fichi e le mani sporche, l’anima greve che prova a sollevarsi e questo corpo di piedi che affondano nell’erba. Tutti i legami che ho costruito, il sangue che mi confonde al padre, alla madre, il loro dolore, il mio, le loro gioie, le mie e le difficoltà a trovare oasi. Non abbiamo scelta, non c’è cuore capace di solitudine, non c’è silenzio che prima o poi non venga interrotto. Nell’ego spropositato delle strade di Milano, di quel capelli nuovi di parrucchiere, in quelle creme che colorano pelli raggrinzite, negli editoriali stanchi che provocano al vuoto, nell’invito al selfie e al libro, l’imbonitore parole di zucchero, accuse e camicie stirate, quel che rimane sui quotidiani dell’uomo delle città. Nelle tue braccia lunghe, nel nostro muoverci impacciato e bocche sporche di vino, le preghiere d’essere ascoltati, compresi. Ci hanno fatto troppo male, mi dici, questa è stata la nostra fortuna. Ci faremo del bene ti dico, mi baci gli occhi, così vedi meglio, dici, mi chiudi la bocca, impara a restare, ora, qui, e nel silenzio siamo tutto un respiro e nel costato che fa su e giù ora sappiamo che siamo vivi, io e te.

Foto: © Claude Rouyer

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