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Non vorrei allontanare da te le sofferenze come fanno le madri

Cambia il cielo in azzurro, sparute gocce sul bavero del mio trench blu. Ancora un caffé, uno soltanto e sottofondo di film in bianco e nero.

Di quando mi sono svegliato in preda all’ansia di prestazione, che per mantenere un ruolo sociale nell’oggi le dimensioni contano, che è necessario far parlare di sé, concentrarsi sullo stile e diventare appariscenti come le luci al neon, le Bentley parcheggiate sulle strisce pedonali.

Negli aeroporti si preparano le accoglienze per l’arrivo dei calciatori. E croci dorate tra i muscoli gonfi del petto per le trasmissioni del pomeriggio italiano.

Distributori di benzina per le nostre sfilate notturne con le velocità impensabili che tenevi in prima corsia. Che cercavamo di perderci mescolandoci alla folla, eravamo indie per non sapere di nulla e ascoltavamo il reggae perché è così semplice che si finisce sempre per saper ballare e non dare nell’occhio. L’aumento del prezzo delle autostrade non ci fermerà e andremo lontano, molto lontano, lo sai, per ritrovarci sempre al punto di partenza e dire questo posto lo conosco, non sbaglieremo strada più. Sono le coscienze che fanno la differenza. Sei così irta che per ritrovarti devo scomodare le Ande, l’assenza d’ossigeno e il bisogno delle istruzioni per montarti.

E nelle tasche ho una collezione di “non so”, di “ok”, di “già”, “ci penserò”, e non l’ho ancora mostrata a nessuno.

Non dev’essere semplice vivere con quella sensibilità tatuata sulla schiena e rimanere puri e ordinati. Mentre nel finestrino rimane impressa l’immagine delle tue scarpe basse, delle tue sciarpe lunghe; che ami e lo fai a modo tuo, tanto che da lontano uno non se ne accorge, così rincorro le virgole e i punti: gli spazi aperti che lasci alla mia intraprendenza.

E non vorrei allontanare da te le sofferenze come fanno le madri, vorrei soltanto che tu le attraversassi, che non bisogna fare per forza tutto insieme, ti troverei nuova, il marsupio vuoto per raccogliermi quando mi corico, come i canguri.

Rompere il ghiaccio, sciogliere il vento e aprire le serrature delle nubi per questo sole che disegniamo sempre tondo. E non ricordo più il tuo profumo, mentre lotti col desiderio per farlo rimanere ancora un po’ al tuo fianco, che se ti scappa finisci per isolarti ancora.

E ci troviamo spesso a parlare con le età avanzate dei saggi dalle mani consumate, le labbra ancora belle. E se sommiamo il tempo trascorso insieme non raggiungiamo nemmeno un part time settimanale.

Coi polpastrelli consumati mi aggrappo a questo schermo e ne faccio un quadro dadabeat, che non sei musa, nemmeno tela. Che sei lontana, e ti penso camminare, ti penso disegnare, tra le ombre scelte e il caldo del legno, siamo quel che vediamo. Siamo quel che desideriamo.

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Mi farò volpe

Le undici e quarantadue, nessun rintocco e suoni rari. Un lenzuolo bianco e le sue macchie pallide, non serve altro per sentirsi soli. Le pulsioni eruttano a vulcano e poi la quiete. La fame folle del post orgasmo e il cuore a mille per le pressioni che saltano sulle nostre teste. Quando ti lasci andare alla notte e non prendi sonno mai. Che sei mia posso dirlo soltanto per questioni d’immaginazione. Ti trascinavi lungo le strade strette della metropoli con i tuoi taxi e non ti fidavi di metro e autobus per paura del contagio del genere umano. Le spalle coperte t’immobilizzano i movimenti, lo sai. Sono venuto a cercarti e non c’eri. Non ci sei più e lo so da tempo e riconoscerlo è più difficile dei quadri in 3D che trovavo appesi dal parrucchiere quando avevo otto anni. E fissavi lo sguardo su un particolare per accedere al tutto, al volume dei tuoi fianchi, il gorgogliare delle tue natiche e la lente delle tue lentiggini. Come la luna sull’orizzonte appare immensa e sopra la testa un puntino, non è questione di lontananza. Più siamo distanti più tu ti fai grande. Le mancanze diventano binocoli ed i miei occhi non reggono il rosso dei fumi dell’atmosfera terrestre. Vorrei essere bianco e puro e salire sul Grande Carro e farmi il giro del cielo per gli approdi che non so intuire e questo viaggio che acquista di senso in percorrenza. Dimmi dei tuoi cento nomi, dimmi della tua cordialità e dei cuoricini che disegni tra i pixel. Dimmi perché io son qui che cerco mille donne per ritrovare i segni di te. Il tuo camminare, le tue dimenticanze. Il tuo vezzo snob e la timidezza, l’accesso vietato ai tuoi luoghi chiusi e le mie domande invadenti. Vuoi dirmi perché ti sei fatta un recinto? Puoi rispondermi che sei come insalata, che cresci al riparo per darti in pasto alle tavole dei contadini.

Mi farò volpe e verrà la notte, penetrerò nel tuo campo, tra le dune morbide della tua terra calda, il seme del mio venire e poi tutte le parole che ci si può sussurrare soltanto quando siamo uno nell’altra. Non ti mangerò, non mi mangerai. Saremo soltanto quegli esseri così diversi che ribaltano le scatole preconfezionate degli equilibri. Verrò a prenderti fuori dal supermercato e ti aiuterò con le borse pesanti. Solleverò le palpebre dai tuoi occhi stanchi per farti vedere vedere la cicatrice sul mio occhio sinistro. La mia sofferenza è soltanto un trofeo. E costruirò con le mie mani primi e secondi piatti. Per l’antipasto useremo le nostre labbra e poi lingua e bocca e intestino e mani e cuore. Farò indigestione coi tuoi occhi e non ti chiederò più il perché dei tuoi allontanamenti. E te ne andrai quando vorrai, basterà un messaggio, una telefonata. Poi tornerai. E ci sarò sempre quando trasformeremo la volpe in peluche e poi ridendo la accarezzerai. E poi piangendo la bagnerai.

Coda da scoiattolo nei galli di San Marco a Venezia - Funerale della volpe mosaico del 11 sec

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Le nostri tristinotti

E scoprire poi che c’è, il freno a mano tirato e le autostrade in contromano. Coi cartelli delle città letti alla rovescia quando perdiamo il controllo, la velocità supersonica delle nostre relazioni coi coiti interrotti delle notti pigre quando le farmacie sono troppo lontane e decidiamo di farci del male rimandando le soddisfazioni al domani. Gettare sul pavimento i nostri vestiti per dimenticarci della taglia 40, gli ideali smarriti dell’adolescenza. Non piove mai e Milano non piange. Le nostre facce che si sono fatte nere coi gas di scarico delle nostre responsabilità e la metropolitana che non conosce i tuoi ritardi. Abbiamo rivoltato le coperte all’ansia che per i baci delle tristinotti non bastano le nostre labbra. Ci ritroveremo qui prima o poi a parlare di felicità, le camere, i bar e i nostri viaggi nelle periferie lunari di Milano est, di quando hai alzato le palpebre per separarmi le acque del cuore. E poi mi hanno travolto. Coi capelli arruffati dici che sembro quell’attore argentino dei Viaggi della motocicletta, ma lui ha gli occhi verdi e sorride sempre. Imparerò ti dico io. E’ troppo tardi mi dici tu. Abbandoneremo i modelli agli stilisti io e te e ci lanceremo senza aerei, senza paracadute io e te su questo asfalto di strade e su queste linee blu che ce la fanno sempre pagare. E con la vernice bianca faremo ghirigori sul muro, la tua schiena nuda e poi sui pavimenti, il parquet e i letti rovinati dai tuoi seni bianchi che spruzzeremo libertà dove ci pare senza sapere i perché di tutti gli altri, della nascita dei dinosauri. Ed era la fine del mondo, come quel rosso che bevevamo alle tre di notte e poi chiudevamo gli occhi perché eravamo troppo stanchi e tu mi davi la mano che lasciavamo la televisione accesa solo per farci compagnia.

 

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Sutura de labios

Quello che chiamate silenzio silenzio non è. Nei buchi dei piercing il punto a croce tra le labbra gonfie, il filo teso che ci accorcia il respiro: i nostri riti vodoo per le lontananze, che siamo sangue e respiro. Le bambole di pezza non hanno le labbra, lo sai? Non pensano troppo e non cambiano idea: lo spazio ideale delle carezze. Noi non sporchiamo parole e ruminiamo di notte, vacche incastrate tra le pieghe dei materassi sfatti coi cuscini indispensabili per gli abbracci, per sentirci due, la nostra solitudine intrecciata ai pixel. Se spegnessimo gli interruttori dormiremmo da un po’, chissà poi da dove viene tutta questa elettricità che ci fa rivoltare come i cani contenti, tutta questa polvere che ci si accumula addosso che dovremmo sbagliare, farci prendere a schiaffi per ripulirci e starnutiremo, certo, lanceremo al mondo le nostre tossine per il repulisti delle coscienze e tutti i viaggi a vuoto, le nostre californie e il rock and roll, la birra a fiumi per i nostri scivoloni. Per le notti sull’attenti del nostro passero solitario e poi la mattina a cercarsi tra le mutande e i calzini e dire addio a non si sa chi, la conoscenza di una notte molesta, il martello penumatico dei nostri pensieri a spaccare la notte venendo di fuori per non contagiarti. E dietro al letto, sul muro, gli schizzi dei miei fallimenti. Le camminate verso casa guardando per terra e le cicche di sigaretta per quella volta che ne ho raccolta una, mi sono guardato intorno per essere visto e poi nel cestino ed il mio inchino per questo mondo che è più pulito. Alle piccole attenzioni è la dedica dell’ultimo libro di Fabio Volo. Alle Indie delle grandi librerie che sono parchi giochi per i vecchi in salute ed ai racconti ardimentosi sull’adolescenza che non tirano più. Metto fine ai silenzi quando ho qualcosa da dire, la scrittura è un buon riparo, una vela salda, ma c’è da fare esperienza, conoscere il vento, soffocare in tempesta, e finalmente scrivere del Central Park, la prima pagina del Baricco. Ho gli orizzonti stretti e non ho tatuaggi, verrà un momento che mi scriveranno sulla pelle, mi marchieranno a fuoco e là nel pascolo, come vacca al macello, come erba per i palati stanchi. E intanto corro, e scappo e non c’è recinto, non c’è galera. No al recinto e questo è tutto, con la Ryan Air e i sogni di libertà a basso costo. Ai voli mancati, alla prima pagina che non ho ancora scritto.

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Neige

E poi c’è la notte che ti porta dove non vorresti, lo spillo della debolezza per i nostri talloni invincibili di Achille e delle battaglie per la gloria e delle cariche dei mulini a vento. Del Chischotte ai concerti di Guccini con le labbra rosse di vino e tutte quelle volte che avrei voluto prenderti da dietro le tue natiche acerbe e poi dirti quei ti voglio bene lunghi tutta la notte. Avremmo potuto sederci sui gradini del palasport e asciugarci il sudore a parole i grappoli d’uva delle nostre considerazioni generiche che ti avrebbe fatto bene un anno a Londra che senza inglese non si va da nessuna parte ormai degli anni zero e dei nostri guai. E un motorino non serve a niente che i vetri delle birre vuote non finiscono più sotto ai sedili. Perché non hai la macchine mi hai chiesto e io con la solita litania del non me ne faccio niente che l’auto a Milano è un investimento quando avremmo potuto rifare le fodere ai sedili di dietro e controllare le sospensioni il movimento atavico delle onde i nostri aliti imperfetti. E poi io divago lo sai tra le tue soste, le storie di vita dei barman stanchi e i tuoi slanci affettuosi per la diversità. Hanno giocato al vodoo con la mia bambola di pezza stanotte ho bevuto abbastanza per raggiungerti e tu non c’eri e il numero civico era sempre quello col bar tabacchi di fianco e il vociare annoiato degli indie metropolitani. Tu sei un designer tu sei un container che se scaricassi quello che mi porto addosso dovresti affittare le gru dell’expo che sono pronte per gli investimenti i bastimenti carichi carichi di niente. Piazza Moscova il venerdì sera sembra il solarium delle lucertole le camicie aperte per accogliere la notte i vestiti firmati i pennarelli scarichi che non potevo scriverti nulla i miei scontrini in crisi non superano il pollice e poi ti ho detto che strano nome che strana vita le fotografie di Chaplin restano mute, lo sai? E leggerti le mie parole all’aria aperta sotto i balconi la pioggia bianca del satellite i quarantenni agli sgoccioli. Mi hai detto Neve e sono rimasto immobile per i ghiaccioli blu che non ti ho mai comprato per le parole che non ci siamo soffiati addosso. Che quando è freddo scolpiamo il cielo coi nostri aliti e dirigiamo gli aerei qualcuno mi ama qualcuno mi pensa le scie lunghe dei nostri intestini e i minuti spesi a cercare il tuo nome. Che alle volte basta un francesismo è solo autunno ma nevica forte.

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Anticipazione 1

(…)

Ero solo, nella mia camera che è tutta letto, che non c’è spazio nemmeno per una poltrona. Il computer appoggiato sulle ginocchia, guardavo le tue foto una per una e poi ancora e poi ancora come se potessi trovare qualche particolare nuovo che ti facesse apparire più brutta di quello che già sei. Che non ci si comporta così. Tu e i tuoi narcisismi particolari, di quella notte quand’andavamo in cerca di un cinema ancora aperto. Erano circa le ventidue della sera il tuo abito lungo e le tue scarpe basse; camminavi lenta come a dire che non riuscivi a starmi dietro che donne e uomini hanno passo diverso. Di cinema in cinema evitavi i miei sguardi e proiettavi gli occhi all’insù che la Madonnina è sempre illuminata e ovunque protegge questa Milano allo smog.

E poi il film l’abbiamo visto, ma io non ricordo nulla. Nemmeno i titoli di coda. Mi hai detto non un granché, il film intendevi che poi non è che parli tanto. Ti annoiavi, lo so, ti stiracchiavi per farmi sentire gli scricchiolii delle tue ossa, gli scatti dei tuoi muscoli, per dirmi sono agile, ma non così tanto da adattarmi ai tuoi discorsi improponibili. Quando ti dicevo che per sapere qualcosa di noi non abbiamo bisogno di guardarci allo specchio, che il vetro è bugiardo perché è la proiezione delle nostre idee, che se ti pensi grassa ti vedrai grassa; che invece avremmo bisogno degli altri per guardar dentro a noi stessi, per capire ciò che va e non va che non siamo mai tanto grassi come pensiamo.

E quando ha fatto chiaro in sala e buio fuori ci siamo fatti coraggio e ci siamo alzati in piedi e tu mi hai detto vado in bagno, io ti ho detto anch’io e quel tu che fai, mi segui? Ho risposto no, mi scappa, vuoi che la faccia qui? Hai storto il naso e là ho capito che la serata era finita e avevo sbagliato tutto un’altra volta. Hai fatto pipì, hai detto ciao e un bacio in guancia guardando l’arrivo del tram. Hai fatto forza sui tuoi polpacci grossi e sei salita e ti guardavi le scarpe, i tuoi piedi storti.

Ti ho vista sparire e ho dimenticato gli occhi sulla strada. E là ho pensato che avrei dovuto cominciare a fumare. Ma non l’ho fatto. Manco una sigaretta. Che poi non respiro la notte e mi giro nel letto come le trottole con le lenzuola che si impigliano tra le dita dei piedi e metti che poi divento un bruco e non respiro più? Io che vorrei morire da eroe.

E invece vivo da vile. In una casa piccola per gente piccola.  (…)

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Carta carbone e nuvole

Carta carbone e nuvole per questo cielo che ha nostalgia di te. L’ovale del tuo viso in cirri e le scie bianche per perderti di vista. Il vento accelera cambiano i contorni le nuvole le nuvole scendono dalle scale e pizzica e pizzica e pizzica e danza gli schizzi sugli scogli. Con la penisola intera che si inchina al mare e per proteggerci indosseremo scivoli di crema che ci guardiamo dall’abisso allo specchio il segnale rosso della nostra pelle a scadenza. Fermati un attimo e aspetta. Le precedenze e i processi sulle intenzioni i fallimenti per tutte le volte che hai avuto fretta i tamponamenti queste annotazioni inconcludenti. Non ti ho chiamata perché volevo incontrarti, ma facevi colazione, eri lontana, eri una rana dagli occhi grandi la bocca larga pronta a saltare pronta a volare. Aspettare aspettare. Col cuore a razzo, a mille, le autostrade tedesche senza i limiti di velocità. E ti ho leccato la schiena da perderci la testa che hai perso il senno, che hai perso il sonno, ti sei spaventata, non hai saltato, non hai volato. Che potevamo diventare rettili e poi uccelli e poi uomini sapienti e invece siamo tornati sott’acqua, che è più tranquillo.  Le branchie intagliate come i nostri padri, le carcasse in mezzo ai deserti. E invece siamo rimasti anfibi. A respirare di mare, a prendere il sole per poi rituffarci abbronzati nelle nostre riviste alla moda, nelle nostre relazioni, nei romanzi rosa.

 

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Le dimensioni tantriche dei nostri amori

Cappuccino e brioches, i giornali rosa con la lista degli acquisti, gli editoriali di Scalfari e la manovra finanziaria contro ai marciapiedi. Le gomme esplose e queste correzioni non metteranno toppe alle nostre tasche. Con gli occhi a braccetto per i tg della sera per combattere contro la congiuntivite i panorami squallidi dei parchi giochi, i materassi a molle i tuoi salti a piè pari sull’adolescenza. Abbiamo lasciato le sofferenze i ciccimerda i nostri malori pomeridiani tatuati sulla schiena dei treni in transito. Le nostre stazioni le nostre cadute i ladroni magri del sud del mondo e i braccialetti colorati per la resurrezione. Tengo ancora nel cassetto pezzi del muro di Berlino tra il fucsia e il rosso i tramonti delle frasi dei cessi degli autogrill. Noi cani sciolti di lusso i corsi e ricorsi storici le dimensioni tantriche dei nostri amori. Per tutte le volte che ti ho chiesto come stai le tue risposte bene e punto gli appuntamenti immaginati e la verginità del tuo numero di telefono. Che puoi dar corda alla lingua, per le boccacce venute male i tuoi occhi in fuori il districarsi polpico dei miei pensieri con gli occhi strabici per gli scontri dei nostri sguardi futuri. Che sei immorale immortale dei tuoi vent’anni delle tue foto le dive anni quaranta una calza abbassata una scrollata. Quando il sipario s’abbasserà non gireranno più film tra Roma e dintorni i dvd tra gli scogli per dirci ero io per dirci ti ricordi per il mio petto nudo i capelli al vento perché è più coreografico. L’automobile di Jules e Jim e quei triangoli improponibili la corsa in mare dei cento colpi che ti ho seminato addosso e sulla pancia ti ho scritto i love you.

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