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Ci scattavamo foto nudi

Ci scattavamo foto al nudo per riscoprire il volto. La tua schiena e polvere di stelle cadenti, il tuo seno accennato e la tua mano che viene ad accogliere il mio abbraccio e così lo riempie di senso. La ricerca e il frutto proibito dell’albero che porti a cavallo del gomito. Le mie sopracciglia dense e gli occhi che cadono tra le tue parole scomposte.

E intanto la strada sporgeva il suo fianco alle auto, pozzanghere nere e gonne lunghe a primavera, scarpe veloci e gambe a x. Veniva a prendermi la malinconia della domenica, le coppie nei parchi e gli aperitivi dei dolci profumi. A perdere il senno tra le pentole della cucina, la scelta degli ingredienti e ritrovarmi ad apparecchiarti la bocca di baci mancati.

E in ascensore un vetro per riflettere sul perché degli incontri. Sempre un impegno e poi fare festa, tutte le preghiere ai mattini assolati che non mi accorgo più del passare dei giorni, come quel viaggio in Sudamerica, il cavallo sulle spiagge di Essaouira e poi i concerti finiti a tarda notte, a cercare la posizione più adatta ai nostri membri induriti dalle attese di quei messaggi che non arrivano mai e quando arrivano respiri forte e dici che bello.

Noi cercavamo la nobiltà nelle soste all’autogrill, con Bud che si faceva di nero e biscotti e le razzie di patatine di Enry, a scambiare parole con le scolaresche e lamentarci del culo della commessa. Questa è la notte che tiravamo indietro i sedili per dormire scomodi, e ci fermavamo in bar piccolissimi e strattonavamo la camicia a righe del barista coi baffi e un altro giro, un’altra mezz’ora, che fuori è buio e fa un po’ paura. Mentre davo gas e saltavo sulla frizione, la prima sgommata della mia fuoriserie d’annata e nuove partenze verso le feste degli altri.

Una sera intera a parlare del perché mi nego e alla fine darti un bacio come una bandierina del Risiko, dire che sì, un’altra volta, anche tu, e perdere il conto delle conquiste, gettare i dadi: altro giro, altro mattino. Quando non sai se un caffè è abbastanza e rimpiangi le lenzuola appena lavate di tua madre.

Grattavo via i rimasugli delle attività di volontariato e mi avvicinavo all’amico per dirgli “e poi come stai? Che si racconta là in quella terra dove fuori non succede mai niente e dentro son tempeste?”. Mi guardavi male quando parlavo del volto di Dio.

E così prendevo la fuga, di quando il sole scalda la tenda e la maglietta appiccica sul collo. E cerchi il mare, la brezza fina del primo topless della giornata e il tuo libro impegnato che non riuscirai mai a finire. Una focaccia calda, un cappuccino, un panino.

Gli altri nel mare, io sugli scogli che a pensare troppo diventi sirena, il canto insensato che rende folli e i dischi degli indie, il ritmo elettronico per sentirsi meno soli.

E mentre tua sorella dorme di giorno e si popola il tuo letto delle fidanzate di altri ti viene un urlo dentro che soffochi così, scrivendo sul muro le tue iniziali, per dirti sei in cella e prima o poi evaderai, vedrai.

Foto: Allen Ginsberg

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Non vorrei allontanare da te le sofferenze come fanno le madri

Cambia il cielo in azzurro, sparute gocce sul bavero del mio trench blu. Ancora un caffé, uno soltanto e sottofondo di film in bianco e nero.

Di quando mi sono svegliato in preda all’ansia di prestazione, che per mantenere un ruolo sociale nell’oggi le dimensioni contano, che è necessario far parlare di sé, concentrarsi sullo stile e diventare appariscenti come le luci al neon, le Bentley parcheggiate sulle strisce pedonali.

Negli aeroporti si preparano le accoglienze per l’arrivo dei calciatori. E croci dorate tra i muscoli gonfi del petto per le trasmissioni del pomeriggio italiano.

Distributori di benzina per le nostre sfilate notturne con le velocità impensabili che tenevi in prima corsia. Che cercavamo di perderci mescolandoci alla folla, eravamo indie per non sapere di nulla e ascoltavamo il reggae perché è così semplice che si finisce sempre per saper ballare e non dare nell’occhio. L’aumento del prezzo delle autostrade non ci fermerà e andremo lontano, molto lontano, lo sai, per ritrovarci sempre al punto di partenza e dire questo posto lo conosco, non sbaglieremo strada più. Sono le coscienze che fanno la differenza. Sei così irta che per ritrovarti devo scomodare le Ande, l’assenza d’ossigeno e il bisogno delle istruzioni per montarti.

E nelle tasche ho una collezione di “non so”, di “ok”, di “già”, “ci penserò”, e non l’ho ancora mostrata a nessuno.

Non dev’essere semplice vivere con quella sensibilità tatuata sulla schiena e rimanere puri e ordinati. Mentre nel finestrino rimane impressa l’immagine delle tue scarpe basse, delle tue sciarpe lunghe; che ami e lo fai a modo tuo, tanto che da lontano uno non se ne accorge, così rincorro le virgole e i punti: gli spazi aperti che lasci alla mia intraprendenza.

E non vorrei allontanare da te le sofferenze come fanno le madri, vorrei soltanto che tu le attraversassi, che non bisogna fare per forza tutto insieme, ti troverei nuova, il marsupio vuoto per raccogliermi quando mi corico, come i canguri.

Rompere il ghiaccio, sciogliere il vento e aprire le serrature delle nubi per questo sole che disegniamo sempre tondo. E non ricordo più il tuo profumo, mentre lotti col desiderio per farlo rimanere ancora un po’ al tuo fianco, che se ti scappa finisci per isolarti ancora.

E ci troviamo spesso a parlare con le età avanzate dei saggi dalle mani consumate, le labbra ancora belle. E se sommiamo il tempo trascorso insieme non raggiungiamo nemmeno un part time settimanale.

Coi polpastrelli consumati mi aggrappo a questo schermo e ne faccio un quadro dadabeat, che non sei musa, nemmeno tela. Che sei lontana, e ti penso camminare, ti penso disegnare, tra le ombre scelte e il caldo del legno, siamo quel che vediamo. Siamo quel che desideriamo.

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