Nebbiolo e gengive rosse, labbra viola. Un’abbraccio agli ospiti, braccia dentro alle maniche del cappotto scuro, lungo fin sotto alle ginocchia, abbottonato fino al petto. Le scale a due a due, il rischio di cadere e sul finale un passo doppio per riacquistare l’equilibrio. Un pulsante piccolo e bianco e conduttori in rame per l’elettricità separano me dalla strada, il portone si apre, poi senza rumore ritorna al suo posto. Lo sguardo si appassiona all’asfalto, non ci sono stelle il cielo, in alto non guardo da giorni. La batteria del telefono segna il dieci per cento, l’amico coi riccioli torna dal concerto di Morrissey, là in quel teatro senza proteine della carne, senza animali macellati, senza sofferenza dei piccoli roditori, senza pellicce e tappeti a manto di tigre, ma speculazione e oscenità d’appalti, pensioni d’oro e lobby, che importa, mi dice, la musica è buona, chiudi gli occhi e lasciati andare, nel buio le luci al neon portano il cervello a pensieri altrimenti irraggiungibili. Raggiungimi al Cape Town, mi troverai seduto sul gradino più alto a guardare la gente dal basso e tacchi altissimi neri, le ultime pance scoperte e magliette del basket Nba indossate senza eleganza. Uno sciame nero e un ronzio di labbra rosse escono da un portone, sono così figa tesoro, ci guardano tutti. Il riccio non arriva, avrà trovato traffico di gambe lunghe, che faccio? Ce l’hai una sigaretta? Chiedo alla ragazza più vicina, ci facciamo soltanto dei gran bomboloni, risponde, sono le ultime due, lo capisci, ci servono. Certo, rispondo io, capisco bene, anch’io come voi cerco un modo per non pensare, ma non ho i soldi per un Moskow Mule, ci pensi tu? Sorride e mi fa posto sul gradino. Il rito del dove sei e che fai. Le mie risposte vaghe, tanto nessuno impegna l’orecchio dopo la mezzanotte. Così parlo per versi, tutti endecasillabi i miei, mi registro e comincio a contare le sillabe. Di fianco ai miei jeans blu capelli neri in coda, biondi a penne di pavone, più lontano un tatuaggio sul braccio e pantaloni strappati sulle ginocchia. Fumo di nero in bocca e lo sguardo a penetrare la vacuità dell’umanità notturna. Le luci dei motorini e il vociare delle compagnie adolescenti. Scusa amica, il riccio tarda, c’è più spazio lontano da te, vicino a lei e alle sue braccia colorate. Non servono le parole, ora è il corpo che crea intimità, un centimetro avanti con la testa, entrare nel campo del non ritorno, ora sai chi sono, troppo vicino per non accorgerti. Parole sussurrate, che ci fai qui? Quanto è lontana la Calabria dei nostri padri? Sai che facciamo, ora parliamo di quello che desideriamo, della scala irraggiungibile che porta alla luna quando lei si fa maga e spunta in mezzo alla distesa dell’acqua, ai cieli di ottobre e al vento che spinge le cartacce e invita al calcio. Mi annoio, tu invece che dici? La noia è soltanto un malessere, metto la disperazione sotto il braccio e le do un nome sempre diverso come si fa coi cani degli amici. Il tuo vestito nero borchiato, il tuo seno piccolo e invadente, i pantaloni stretti e il tuo sedere tondo. Facciamoci giostra questa notte, giriamo nel senso opposto a quello del mondo, scambiamoci tutte le lingue del mondo. Il mio battello naviga lungo i tuoi canali olandesi, tutti i papaveri sulla tua schiena, ora volano le rondini verso altre primavere e le persiane si chiudono sul tuo ventre, la luce del lampione ti rende bella, un bianco e nero da film, mentre ti muovi su e giù e non guardi nessuno, i tuoi occhi chiusi mentre le tue labbra si deformano e godiamo dei pensieri irraggiungibili dell’essere due.
Foto: © Bruce Davidson