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Dei discorsi interminabili di Meucci e delle lenzuola di Hemingway

Gli occhi incastrati tra i comignoli, contavamo fino a quando il pensiero si staccava da noi e ci trovavamo con le dita impegnate senza saperlo.

Il cellulare lasciato sul tavolo, i bicchieri tagliati in due dal rosso.

Per le trasparenze ci bastavano gli occhi e mi chiedevo se ci avessi dato del lucido, se esistessero ancora le bombolette che donavano la patina invisibile ai nostri lavoretti dell’asilo.

Quando il tuo gomito precipitava dal tavolo e facevi finta di niente.

I camerieri imparano tutte le lingue del mondo e io della tua non conosco la forma.

Ci siamo stretti intorno ai vicoli privilegiati di certa gioventù che si guarda troppo allo specchio, e ti dicevo che abbiamo perso tempo ad amarci in decalcomanie, che ora potremmo disegnarci senza l’aiuto delle fotografie.

Per i nei che danno senso al bianco, i punti neri per il grasso in eccesso. E poi un discorso sui trasferelli che non ricordo più.

Ci sorprendeva la grandine quando osavamo prenderci il tempo di guardare tutto dall’alto: il cielo parigino come la panna cotta dopo un lungo pranzo.

E mi chiedevo il perché dello sporco esagerato dei miei capelli.

Quando attraverso la strada ho paura delle biciclette.

E tra le lapidi dei grandi cercavo ispirazione e ti dicevo che sì i politici, sì i rivoluzionari, ma che ne è dei poeti? Hai mai conosciuto uno scrittore felice? Hai mai preso un caffè con Kafka? Un tè verde con Einstein?

Dei discorsi interminabili di Meucci e delle lenzuola di Hemingway.

Dimmelo ancora che i trapassati ci parlano, prossimi o remoti che siano. Dimmi che è della tua pelle bianca, dei pascoli erbosi del mio petto, delle tue labbra fini e del puttane agli angoli della strada. Che si sono divise il territorio per colore, mi dicevi, come a Risiko: qui i cinesi, qui gli indiani, qui gli africani, vuoi dirmelo ora che ne è stato delle prostitute australiane?

Per confidarti che la libertà si misura in incontri, delle malelingue delle città grandi e dei miei affetti per la provincia lombarda. Ti caveranno il sangue a furia di morsi, ti fischieranno le orecchie fino a farti impazzire, ma sai che non è cattiveria, loro lo fanno perché non hanno nient’altro, gli antidepressivi per stare meglio. Il giardino del vicino è sempre più stronzo.

Volevo scriverti dell’amore e ho spalancato le finestre: è entrato un gabbiano. Così gli ho domandato come ci si sente a perdere l’identità dell’io, gli uccelli non hanno nomi propri e va a finire che si confondono. Lui mi ha risposto che faccio domande non interessanti, che meglio è volare, andare, viaggiare, che a lui poco interessa dei riconoscimenti, che fa il pieno d’acqua, e aria, che abita il mare, ma non trascura i tetti, che si nasconde la notte e poi fa bianca l’alba.

Ci siamo stretti le ali come si fa nei libri per bimbi. E quando ha preso il volo mi ha fatto segno di rimanere, di non seguirlo, di prendere l’uscio, che a noi umani le picchiate fanno male, che non conosciamo le correnti e coi venti facciamo guerra, mentre loro no, mangiano, bevono, volano e sanno tutto gli orizzonti.

Così pensavo a te, e raccoglievo una penna bianca, la nascondevo tra i capelli e poi ballavo in cerchio, come fanno gli indiani, c0me fanno i gabbiani, e tu ridevi, pensavi che sciocco e a me andava bene anche così.

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Altro che lettere

Io non lo so perché continuo a scriverti. E poi non me lo chiedo più, ci penseranno altri a trovare risposte. Sensibilità, fisiognomica o che altro, forse i tuoi nervi o lo scatto lento delle tue palpebre. Ci lanciamo in domande sul senso di quel che ci accade, dentro o fuori non c’è poi molta differenza. Con le mie ciglia lunghe che sono antidoto ai gas tossici della circonvallazione, siamo così distanti che non bastano i boomerang per riportare indietro le pellicole impressionate dei nostri gesti trattenuti. Poi l’ultima volta era come sedersi allo specchio e trovarsi i difetti, schiacciare i punti neri e i peli superflui tra le sopracciglia e poi mordere l’erba cipollina sul tuo davanzale. Tre passi altissimi con le orecchie incastrate tra le nuvole dense del cielo di Milano e poi quella leggerezza del finalmente ero io, o almeno un poco. Non c’è mai un due senza tre con te, che in mezzo alla gente siamo anche più belli. E avrei voluto vederlo al tuo fianco quel film e farmi quelle domande surreali del se sei là come fai a essere qui e via e via con tutti i ragionamenti che si incastrano tra i sedili scomodi, che sarebbe meglio prenderci i fianchi e guardarci nell’incavo delle labbra il gorgoglio dell’acqua nuova del mese di Aprile. Ci si rivoltano addosso cieli dipinti nei video demenziali modello youtube e sulle nostre sicurezze i Cattelan del potere hanno costruito un punto di domanda. I miei segni rossi sui quotidiani e il quaderno in pixel per incollare i ricordi. Verranno a dirmi della malinconia del foglio di carta e del profumo invadente d’inchiostro, risponderò che le mele bianche della California sanno far luce e il virtuale è un’esperienza cosciente, altro che 2001 e Odissee nello spazio. Sulla mia lingua hai seminato in ricordo il sapore lisergico dell’erba e il gusto dolce della cipolla, per il tuo davanzale e i suoi vasi, per le lettere che ti ho scritto una volta, per la punteggiatura sbagliata e le A che assomigliavano a E. Quel silenzio lunghissimo per poi capire che è sulla strada che si consumano le conoscenze, altro che mele, altro che pixel, altro che lettere.

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