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Ti ho scritto ti bacio, mi hai risposto ti bacio

Lui le aveva comprato un biglietto per quel concerto, gliel’aveva infilato in una busta chiusa nella cassetta delle lettere. Lei aveva ventitré anni, viveva in affitto e la cassetta della lettere non l’apriva mai. Passarono tre mesi, venne il padrone di casa a ritirare la posta, prese la busta, lesse il suo nome e gliela mise sotto la porta. Lei strappò la carta, vide il biglietto, si chiede il perché di un invito a un evento ormai passato da tempo. Lesse la dedica col nome di lui, si ricordò di una sera, fuori da un bar in Ticinese, quel ragazzo bello e ubriaco, quello vestito male, col trench blu e le scarpe rosse. Si ricordò perché non gli aveva più risposto: un esame a breve in università, il pensiero a un uomo che la scopava per bene ma non l’amava e poi il futuro così incerto. Decise di contattarlo su Whatsupp, gli scrisse: “Ehi, la prossima volta se mi avvisi prima magari ci penso.” Lui ricevette il messaggio mentre era sul cesso e ascoltava I Cani che urlavano dei pariolini di diciott’anni che comprano e vendono cocaina, lo lesse e si ricordò di quella busta, si chiese perché proprio ora che stava uscendo con una ragazza carina che non lo faceva impazzire, ma sì, gli piaceva e non gliene importava nulla se l’aveva trovata su Tinder. Lesse il messaggio ancora, e ancora, poi appoggiò il telefono sul pavimento, l’applicazione si chiuse e anche la musica cessò. Si pulì il culo per bene e non dimenticò di lavarsi le mani. Poi riprese il telefono e le rispose: “Dopo tre mesi ti fai sentire così? Al concerto sono andato da solo.” Sotto al messaggio si accesero due virgole blu, lei aveva letto. Non rispose subito, lui chiamò, così impulsivo. Lei rispose, lui non sapeva che dirle, lei rideva, lui azzardò un “Perché non ci vediamo stasera?” Lei rispose “Perché no?” Lui disse ancora: “Vengo a prenderti alle nove” Lei rispose ancora: “Ci vediamo alle colonne di san Lorenzo.”  Lui: “Meglio sul Naviglio allora.” “Colonne o niente.” disse lei. “Ok.” Terminò lui. “A dopo.” terminò lei. Si fecero una doccia, si vestirono, si profumarono, uscirono ciascuno dalla propria casa, lei in ritardo, lui in anticipo, dopo pochi passi si chiese se avesse chiuso per bene la porta, tornò indietro a controllare, quella era chiusa, lui era agitato. Quando si incontrarono si strinsero la mano, lei rise, lui trovò il coraggio per baciarle le guance, qualche secondo per decidere dove andare, le mani in tasca. Finirono al bar Cuore, c’era un concerto, lei conosceva tutti, lui no, presero da bere, pagò lui, lei si intrattenne con la barista, glielo presentò, incespicò sul suo nome, poi se lo ricordò. Si sistemarono a un tavolo, lei sorseggiava, lui tracannava. Il bicchiere di lui ormai vuoto, un po’ di domande sul frattempo, svelato l’arcano della busta. “Dovevo pensarci prima.” Lei gli chiese a cosa, lui disse: “Al fatto che chi è in affitto non sempre controlla la posta.” Lei disse soltanto: “Era un bel concerto, sarei venuta, forse.” Poi gli raccontò del passato, fece ipotesi sul futuro, gli propose di fumare fuori. Lei uscì, lui le guardò il culo, poi i capelli lunghi, avrebbe voluto si scoprisse le spalle, lei indossò il cappotto. Lei fumava, lui no, molto silenzio. “Ma non ti piacevo proprio?” “Be’ sì. Certo che un po’ mi piacevi, non ti avrei dato il mio numero altrimenti.” “Ma perché poi non mi hai più risposto?” “Non lo so.” “Posso baciarti?” “C’è anche da chiederlo?” Lei lo baciò, lui ne fu sorpreso. Le labbra si cercarono, le lingue si affacciarono timide, poi presero coraggio, labbra su labbra, lingua su lingua, via a mulinello, una mano scendeva sulla schiena, l’altra cercava il muro, lei si staccò, gli disse: “Mi sembra sufficiente.” Il respiro di lui ci mise un poco a ritornare normale. Un gruppo di ragazzi si avvicinava, uno di loro indossava un cappello, uno di loro alzava una mano, uno di loro, sempre lo stesso, le andava incontro, la abbracciava forte, la prendeva in braccio la faceva girare tutto intorno, lei era felice. Quando sei tornato? Oggi, proprio oggi, rispose quel ragazzo. Lei si avvicinò alle labbra di lui che erano più rosse del solito, gli disse soltanto: “È un mio amico, non lo vedo da tanto, vuoi scusarci un secondo?” Lui annuì e si appoggiò al muro, sulle prime li guardò, poi fissò la strada, controllò nervosamente il telefono, poi ritornò a guardarli, lei si divertiva, non smettevano di abbracciarsi, di toccarsi, lei lo prese per mano, entrarono nel bar, ordinarono da bere, si abbracciarono ancora, li osservava dal vetro. Appoggiò una sigaretta alle labbra, la accese, due tiri e la gettò per terra, fece per entrare, il ragazzo col cappello la stringeva, lui decide di andarsene, poi se ne andò. Tornò alle colonne, si guardava intorno e si grattava le dita, e i discorsi superficiali, e bottiglie di birra vuote che rotolavano per terra e rossetti rossi tutt’intorno. Vide una coda, capelli biondi, abito nero, le disse: “Ehi.” Lo ripeté due volte, poi pronunciò il suo nome. Lei gli chiese se si conoscevano, lui fu capace di spiegarle che si scrivevano su Facebook, si ricordò anche di tutto quello che si erano scritti, anche lei ricordò, lui la aveva abbordata con una scusa, lei lo trovava carino, si strinsero la mano. “Sto andando a casa.” Disse lei. “Se vuoi ti accompagno.” Propose lui. Lei fece sì con la testa, camminavano vicini. “Sembri triste.” Ruppe il silenzio. “Ho avuto una serata di merda, scusa.” “Ma hai incontrato me.” “Anche questo è vero.” “Ricordi che ci siamo baciati su Facebook?” Domandò lui. “Non ricordo, l’abbiamo fatto davvero?” “Sì.” “E come è stato?” “Bello credo. E per te?” “Se è stato bello per te lo sarà stato anche per me.” “Ma come abbiamo fatto?” Lui spiegò: “Io ti ho scritto ‘ti bacio’ e tu mi hai risposto ‘ti bacio’, e così ci siamo baciati.” Lei era dubbiosa. “E come lo sai che era un bacio vero?” “Lo so, lo sentivo,” disse lui convinto, “e lo sentivi anche tu.” “Dovremmo riprovarci.” “Magari riproveremo.” “Perché non adesso?” “Perché non siamo in chat.” “Se lo facessimo davvero?” “Non credo funzionerebbe.” Lui domandò il perché. “Quel che succede in rete resta sulla rete.” “Ne sei convinta?” “Certo.” “A me sembra tutto vero, anche tra i pixel.” “Non ti ammalare.” “No.” Disse lui.

Lo ripeté più volte quel no, non sembrava convinto. Erano arrivati sotto casa di lei. “Sono arrivata.” “Lo so. Ci siamo fermati.” “Domani mi sveglio presto, scusa.” “Non c’è problema.” Lui provò ad avvicinarsi per baciarla, lei offrì la guancia. “Devi avere pazienza.” Disse. “Chiamami domani, se vuoi, ci beviamo una birra. Sai dove abito.” “Va bene, buonanotte.” “Buonanotte.” Rispose lei, corse sulle scale, sparì dalla sua vista. Lui accese un’altra sigarette e rimase là, immobile, a mischiare il passato e il futuro.

Il telefono squillò, era la ragazza del Cuore. “Dove sei finito? Ti ho cercato ovunque.” “Me ne sono andato.” “E perché?” “Così.” Disse lui, lo ripeté e gli venne da ridere. “E ti sembra il modo?” Lui rispose di sì, che gli sembrava il modo e che era stato un errore rivedersi, che erano passati tre mesi, che erano diversi, che lui l’aveva immaginata diversa. Lei gli continuava a ripetere: “Ti sei ingelosito?” Lui disse: “Avrei dovuto?” Lo disse ironico. Lei gli urlò VAFFANCULO e lui rispose grazie, poi terminò la conversazione e si avviò verso casa.

Si domandò più volte cosa significasse essere gelosi, si rispose soltanto che lui era di troppo e niente lo faceva felice. I baci, quelli sì, con quelli si dimenticava delle insicurezze, delle domande sul senso di tutto il mondo e di quella vita che non gli dava né soddisfazione né stimoli né voglia di alcun domani. Si specchiò a una vetrina e si trovò bello, poi pensò a quel no detto alla ragazza di Facebook, decise che non l’avrebbe mai più richiamata. Poi tornò a casa e si addormentò molto tardi. Il giorno dopo le scrisse che sì, era geloso, lei non rispose. Due spunte blu, aveva letto, ma non rispose.

Foto: dalla rete, Chez Jeannette, Paris.

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L’amore non esiste, esiste solo l’acqua del rubinetto

Costretto a casa. La paura del quadro elettrico e le esplosioni emotive delle circostanze.

Guardava alle pareti con l’espressione degli imbianchini. Lavoro, solo lavoro, tutto è lavoro.

Prese un pennarello nero e disegnò sul bianco del muro. Tre righe lunghe. Non soddisfatto decise di imbrogliare il mondo e sollevare ogni tratto dal senso. Ghirigori scuri e una scritta: l’amore non è esiste, esiste l’acqua del rubinetto e con quella laverò via le brutture del mondo.

Corse al lavandino, svitò il pomello di destra, mise le mani a conca e aspettò che si riempissero d’acqua, poi, facendo attenzione a non perdere nemmeno una goccia, raggiunse il muro e lanciò il liquido trasparente che s’impennò e finì sugli scarabocchi.

“Quando lei tornerà si arrabbierà molto. Darà la colpa a me. Sono emotivo. Tutto qui.”

Prese un panno bianco e strofinò il muro. Il disegno non si cancellava.

Allora si sedette a gambe incrociate sul pavimento, fissò la parete.

“Quando lei tornerà mi manderà via. Non mi vorrà più vedere. Ma non è colpa mia. Sono impulsivo, tutto qui.”

Pronunciò “impulsivo” a voce alta e appoggiò uno strano accento sull’ultima o, tanto che si meravigliò di come un suono così strano potesse essergli uscito dalla gola.

Si sollevò agilmente e raggiunse un armadio a muro, lo aprì e rovistando in una piccola latta afferrò dei chiodi, poi prese un martello. Tornò al muro. Si levò i pantaloni e li inchiodò al gesso. Poi si tirò via le calze una a una. Poi la camicia, poi il cappello. Tutto inchiodato in ordine sparso.

Si ritrovò in mutande seduto a gambe incrociate a guardare il muro davanti a sé:

“Dovrebbe arrivare Martin. Se arriva Martin non s’arrabbierà.”

Si sollevò ancora e raggiunse l’armadio, prese una giacca pesante e ci vollero quattro chiodi perché restasse attaccata al muro.

“Così non avrò freddo.”

Si sdraiò sul lato, il braccio piegato a sostenere la testa:

“Martin non arriverà. Non si arrabbierà. Se lei non arrivasse, non si arrabbierebbe. Speriamo che lei non arrivi.”

Si sfilò le mutande bianche e le sollevò davanti agli occhi. Poi le appoggiò al muro e diede un’occhiata all’insieme.

“Bisogna sporcarle. A lei non piacciono le mutande bianche.”

Tracciò una X col pennarello nero sul tessuto bianco.

“Le piacerebbero queste. Piacerebbero anche a Martin queste.”

Le inchiodò al muro.

“Ora ci vorrebbe una paperella dentro a una vasca da bagno. Se lei arrivasse e vedesse una paperella dentro una vasca da bagno non si arrabbierebbe, sarebbe contenta.”

Andò in bagno, prese una paperella e la inchiodò al muro un po’ in disparte rispetto ai vestiti. Poi col pennarello nero tracciò un grande cerchio che iniziava sul muro e finiva sul pavimento. Uscì nudo sulla terrazza di casa e ritornò dentro con una canna verde per l’irrigazione, la collegò al rubinetto della cucina e cominciò a bagnare mirando dentro al cerchio.

Rimase fermo. L’acqua scorreva. Fischiettava il ritornello di una canzone di Battisti.

“Si farà il bagno. Sarà contenta. Faremo il bagno insieme, tutti e due nudi. E se arriverà anche Martin si farà il bagno anche Martin. Non sono mai stato geloso di Martin.”

Alzò le spalle e appoggiò la canna al pavimento stando bene attento a non posizionarla fuori dalla linea nera.

Si sdraiò nell’acqua, guardò il soffitto, disse: “Manca qualcosa lassù, avremo bisogno di stelle, di un cielo, una nuvola. Dovrà essere bellissimo. Non ci serviranno lampadari.” Così prese la scopa e mulinò con forza contro al manufatto di vetro che si staccò e cadde sul pavimento frantumandosi.

“Lei non ha molta immaginazione, ma ne servirà molta, è tutto così bianco là sopra. Aspetteremo quando sarà buio e farò finta di vedere delle stelle cadenti. Lei ci crederà, ha sempre funzionato. Dirà: Peccato, dovrei stare più attenta.”

Guardava in alto e immaginava cieli senza rendersi conto che i suoi piedi erano rossi di sangue, trapassati più volte dalle schegge di vetro del lampadario distrutto.

Gli venne un’idea. Corse in camera da letto e prese il computer portatile. Lo appoggiò su una sedia, disse: “Ti verrà voglia di venire qui quando vedrai tutto questo. Non ti arrabbierai, credo faremo l’amore.”

Aprì Facebook e le scrisse queste esatte parole. Lei era in chat: attiva, verde. Non rispose. Lui sapeva che lei aveva letto.

“Arriverà, mi farò sorprendere.”

“E poi ci vorrà un sole. Un sole non allo zenit, un sole prima del tramonto. Un sole caldo che non scalda, che illumini senza invadenza.”

Così prese una lampada e l’appoggiò su una sedia. I piedi nell’acqua ormai rossa. Collegò la spina alla presa, la lampada si accese. L’acqua saliva.

“Non avrà caldo?”

Pensò allora che mancasse un vento leggero, di quelli che si infilano tra i capelli e sotto ai vestiti. Di quelli che solleticano i corpi nudi e costringono a stringersi.

Andò in bagno, sentì per la prima volta male ai piedi, non ci fece molto caso, afferrò l’asciugacapelli.

Il mare rosso, la paperella, la luce fioca di una lampada, le mani bagnate. Collegò la spina alla presa.

I vestiti appesi grondarono lacrime.

Lei non arrivò.

Martin fu il primo a bussare alla porta.

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La naturalezza dei salici

Quando abbandoneremo i discorsi lunghissimi per legittimare la necessità del nostro fare?

Vorrei parlarti delle nuvole basse, del cambio di stagione e delle relazioni che abbiamo in comune, guardarti camminare con le scarpe nuove e i capelli raccolti, chiederti la ricette delle linguine ai frutti di mare e poi sorprenderti che ti accarezzi le guance e ti bagni il viso abbandonata a stanchezza.

Tutti questi discorsi a trapano nel cervello e l’io davanti a tutti come un mazzo di fiori da consegnare al primo incontro. Quando invece qui non ci sono rocce, la luce è rara e le piante nascono dentro ai negozi.

Mentre disdegno il frutto buono che non nascondi più tra le cosce, ti ho sempre detto che tutto quel che si palesa perde d’interesse. Poi siamo andati a vedere un Picasso e mi ha chiesto: questo è palese? Questo è un paese, ho risposto io, quei contorni segmentati e linee spezzate. Disordine e confusione.

Ci pensi mai a quando è decollato il primo aereo di tutta la storia degli aerei? Dov’è finito ora lo stupore? La spiego così la voglia di notti disperate, perdiamo il controllo in droghe e alziamo il tasso alcolemico seduti al tavolo della cucina.

E se rasassi i capelli sui lati asseconderei la moda del momento, chi te l’ha detto che è un male? Perché continuiamo a farci salmoni e tagliamo in due la corrente per farci notte? Quando invece le madri son tutte belle e i passeggini suonano il selciato dei parchi.

Mentre le associazioni di volontariato ci interrogano sui numeri del nostro conto in banca, lo sai quanti bambini hanno bisogno del tuo aiuto? Lo sai quanto mi manca un tuo saluto?

Eccolo qui il solco che ci divide, l’aratro ha separato le nostre nascite e quella ferita la dividiamo senza accorgercene. Lo sai perché continuo a farmi foto in primo piano e poi le metto sul profilo di Facebook? Perché il tempo cancella e una volta odiavo i ricordi mentre ora voglio avere chiaro il mio viso, i chili di troppo e muscoli tonici, le prime rughe e i capelli bianchi. Non esiste uno spirito libero se non si libera il corpo. Voglio imparare a nuotare, voglio imparare a ballare. E con la naturalezza dei salici chinarmi su di te e prendermi un bacio, uno soltanto, farci una foto per poi ricordarmelo.

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Smetterò di vergognarmi quando ti tengo per mano

C’eravamo ridotti a far fontanelle d’acqua gonfiando le guance e trasformavamo le labbra in pistole a salve per colpirci e lasciare il segno e poi non farci male.

Non lo so se sei ancora bagnata; quando alla scuola elementare studiavamo il ciclo dell’acqua venivano sempre fuori gli agenti atmosferici e l’inquinamento del pianeta terra. Nelle nostre teste il fumo dei pensieri e polvere nelle biblioteche dei nostri vorrei.

Alle mie battaglie senza armatura e ai voli pindarici sugli scalini di casa.

Troppo vicini al sole noi, sotto le ascelle le gocce di cera di quando perdiamo le ali e scivoliamo in fatica e dubbi sul nostro presente. Nel labirinto dei vezzi moderni siamo precipitati nel cerchio del fuoco: nelle parole buone le mie paure più grandi. Mi sono ripromesso di guardare a me e lasciar perdere le rampe di lancio private, le basi militari dei vicini di casa.

Certo è che mi soffermo ancora sul significato delle parole, e a una conoscente che scrive su facebook.com vorrei dire smettila di arricciare il naso e gettare giudizi dalle tue mutande a vita alta. Nell’erotico gioco delle accuse poni domande e lascia perdere i volti degli attori noti e le frasi d’occasione di certa sinistra. Il fatto è che per trovare l’effetto ci siamo persi l’azione, l’arcobaleno viene dal nero e va a finire che non serve a nulla. Ci inganneranno ancora con la favola della pentola colma d’oro.

Mi piace perdermi nelle cicatrici degli altri, mi eccita la grazia esibita e il pendaglio che porti tra i seni ribelli.

Sull’imperfezione del tuo naso ho disegnato una x per ricordarmi che questo è il punto. Ci salveranno le canzoni di Battisti e il Lacrimosa che ascolto al risveglio.

E per i nostri sogni ho scelto il posto più bello: la tavola apparecchiata. L’esperimento è provare a sentire il gusto di ogni piatto e donare alla lingua l’esperienza dell’acidulo del pomodoro. Che a questo serve lo zucchero.

E poi torniamo a noi, al ricordo della luce intagliata dalle persiane e ai muezzin che ci sveglieranno a Istanbul.

Quanto vorrei portarti a fare il giro del mondo, e smetterò di vergognami quando ti tengo per mano.

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Quelli di Beverly Hills

Tutto il calcio minuto per minuto e le parole che ti ho già detto. Le nostre case provvisorie e gli amici storici che non ci riconoscono più, che siamo quelli di Beverly Hills con le televisioni spente e i Jeans. Quella mattina ho fatto il funerale alla barba con delle fototessere, le ho appese al muro per non dimenticarmi che l’erba cresce e campa Milano coi parcheggi coperti. E mi parlavi dei contanti dei portafogli dei cinesi esplosi e nei tribunali c’è di più tra facebook e le auto blu, le donne in piazza con i cartelli, con i gemelli, con le chiazze rosse delle notti all’estero. Di quando io non so fare niente e tu mi hai detto che i cappuccini potrei farli anche a New York o ad Hong Kong. Perché non partiamo? Perché non balliamo? Per tutte le notti che ti sono venuto dentro e tu non l’hai mai saputo. Le mie estati a camminare coi moon boot e quando avrei voluto rapirti per lanciarti sulla luna così mi guardi dall’alto, e i tuoi tessuti aerei, la tua gonna che non si solleva mai, lui, tu e i tuoi guai. E negli slam costruiscono i carri del carnevale, la quaresima dei nostri sguardi per quei biglietti del treno a rimborso. E poi mi dici che al Cairo saremmo bruciati anche noi, che l’estate è troppo calda e il 14 febbraio Parigi è fuori moda. E avrei voluto suonarti una canzone, ma non so suonare e avrei voluto portarti al mare, ma ci sei nata. E ancora il calcio minuto per minuto e i fumetti di Andrea Pazienza e gli spettacoli brutti e quello che avrei voluto dirti, ma non ti ho detto. Che poi lo sai che anche i ghiaccioli al sole si sciolgono.

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