La tua chioma a cavallo dei pixel. La luce bianca dimenticata dai più.
In queste case buie gli usci che danno sul disinteresse di quello che chiami il tuo prossimo.
Eri venuta così, per non disturbare. Quando hai tolto le scarpe per non sporcare e con le calze abbassate ti sei fatta presenza. Respiravamo piano per evitare ogni forma d’invadenza. Degli sguardi tra i tagli nelle tende e delle nostre adolescenze.
I gradini della stazione centrale di Milano a chiederti che ne pensi del sesso, tu che lo fai, tu che sei grande. Che mi appoggiavi gli occhi sulla fronte e poi li facevi cadere tra le mie guance come le biglie sulla sabbia dell’Adriatico. E poi allungavi la lingua per farmi sentire che sapore ha la conoscenza, ma a me a quei tempi faceva schifo e il burattinaio tirava il filo, allontanavo gli occhi a scatto fisso, le spalle magre. Non ci saremmo rivisti mai più, la fiducia persa nella paura di una conoscenza. Tu avresti continuato a guardarti attraverso col rasoio a incidere sulla pelle la mancanza di somiglianze. Gli altri ti scorrono di fianco come nei lungometraggi di fantascienza e va a finire che il tuo volto si perde sullo sfondo.
Non mi convincerai mai che siamo in un film. E mi tiravi dietro i tuoi vaffanculo perché non sapevo godermi il presente, il cazzo ritto di certi attori porno non assomiglia a realtà e poi perché vuoi rendere fiaba quel che fiaba non è?
Mi cresceva la barba e lo sguardo rimaneva giovane, non sapevo che fare per crescere in consapevolezza e durezze. Eh sì che soffrivo, che avrei voluto portarti sulle stelle e cantarti di Piero Ciampi, ma sono troppo stonato e riesco soltanto a bere vino per addentrarmi nelle figuracce storiche con la Milano dabbene.
Quando mi hai invitato a casa tua e poi hai detto no, meglio di no. E da quel giorno non ci siamo più scritti.
Ci sono notti d’insonnia e passi, notti col girovagare che viene a prendermi in fondo al letto e mi porta fuori. A sedermi sui gradini del Duomo quando non c’è nessuno e a fantasticare sui soffitti nelle finestre illuminate. La piazza vuota e le rivoluzioni di novembre. La chiesa sempre chiusa quando vorrei soltanto il riparo della navate e poi nessuna crociata contro di me, nessun giudizio per te. Che sono debole come le lumache e se lascio una scia è soltanto per l’eccitazione.
Assomigli così tanto a un personaggio di un mio romanzo che ti sei fatta attrice per quel film che ho desiderato da tempo.
E poi contorni, e strade, e parole che tornano lente. Dopo lo UOAA e le esplosioni dei nuovi cantautori. I miei muscoli stanchi per la partita del giorno prima. Ed ora so che non posso giocare come attaccante, che ho bisogno di campo e orizzonti, per dettare passaggi nel tempo e finalizzare in futuro.
Reblogged this on i cittadini prima di tutto.