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Lo skyline di Manhattan

C’è un cane che abbaia giù in fondo alla strada. Le lavandaie lavano. Odore di sapone e finestre aperte. Tu alzi una mano per salutare, sorridi con quei tuoi denti che paiono lo skyline di Manhattan. C’è il tuo neo che saltella per strada, lo prendo al volo e me l’appiccico sulla guancia, ora ci assomigliamo un po’. Ti ho detto l’ho sentito dal primo momento che eravamo come il pane e il pomodoro, mi hai risposto io no e poi hai infilato la testa sotto al tavolo. Non mi guardare hai detto, non posso fare altrimenti, ho detto io. Proprio “altrimenti” ho detto. Da quel momento in poi la mia esistenza è cambiata. Non ero più solo al mondo, non c’eri nemmeno tu al mio fianco. Una valanga di pensieri e una tempesta di vorrei, mi sono tagliato i capelli due volte per cercare di non riconoscermi, per confondermi ai tanti. Ho fallito. Ora mi guardo allo specchio e mi riconosco e dico sono questo qua, soltanto questo, se ti basta appoggiami ancora il mento sulla spalla. Ti penso e mi appare la tua immagine come dentro al caleidoscopio. Cazzo che fatica scrivere una parola così. C’era la luna blu nel cielo, hanno detto, qui era nascosta da nuvole scure, ho aspettato tutta la notte che tu mi scrivessi: guarda il cielo. Non l’hai fatto, ma non importa, sai, era un modo come un altro per farti entrare nei miei giorni, per sentirmi più leggero, che le ali ce le ho ma manca il vento. Ho amici dappertutto, la provincia sotto questo punto di vista è un bell’aiuto.

Lo sai cos’è il duende?

C’è chi non sa piangere davanti a una poesia, chi invece lacrima per l’emozione di un regalo ricevuto, di una nuova nascita e così via. Sto diventando così banale che ora potrei chiederti quanti siamo nel mondo, tu risponderesti che non lo sai, andremmo a cercarlo su Google e poi diremmo tra tutti questi noi. E io scoppierei a ridere e tu anche e mi diresti andiamo alle terme e ti direi basta un asciugamano bianco e mi chiederesti se ce la stiamo facendo ad assomigliare a tutti gli altri. Allora ti porterei in Rinascente e così, davanti all’ennesimo specchio, ti direi: eccoci qui. E tu non ti nasconderesti più ma proveresti le tue mille espressioni. Me lo rubi un vestito? Al massimo te lo regalo, ti direi io. E giocheremmo come fanno le coppie a cambiarci d’abito e sfilare fuori dai camerini aspettando un giudizio e uno sguardo. Facciamo come in quel film e corriamo fuori e facciamo suonare gli allarmi di tutta la città? Io me lo immagino ma poi non ho il coraggio. Tu non ci pensi e lo fai, io ti rincorro e prima di raggiungerti pago. Così litighiamo e mi chiedi perché lo hai fatto? Per il “quieto vivere” rispondo io. E tu t’incazzi. Sei così bella arrabbiata. Siamo come tutti gli altri, siamo come tutti gli altri, siamo come tutti gli altri. Solo che tu hai un numero imprecisato di lentiggini, quante altre come te? Solo che ho un numero imprecisato di parole che combino a caso e per fortuna tu ci capisci qualcosa e non hai paura e ti avvicini. O hai paura e ti allontani? E ora dove sei? Non lo so più.

Foto: © Tomas Deszo

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L’arcobaleno di chissà dove, i tuoi nei per chissà chi

Se non lo fai non lo impari. Se non lo hai vissuto non ne puoi parlare. Tutta quella cosa che chiamiamo esperienza ci riempie le guance e ci fa gonfiare il petto. Tutta quell’aria dentro ai polmoni non può rimanere soltanto per noi, mi dici, così via a respirare più forte fino ad ansimare. Chiamerai ancora godere tutto questo nostro dirci, questo nostro cercare d’interpretarci? Scriviamoci ancora di notte, telefoniamoci per sempre. Sai bene che sempre e mai sono due parole senza significato e noi, noi che siamo cacciatori, perché non smettiamo di pensarci prede? Noi che ci crediamo navigatori, perché non la smettiamo di disegnare rotte e avere in mente porti? Ci perderemmo, mi dici, ci distruggeremmo, mi dici, moriremmo di fame, di sete, di lontananza. Quante altre strade si aprirebbero davanti ai nostri passi se soltanto dimenticassimo da dove veniamo e chi siamo? Mi dici prova a farlo almeno dopo le otto di sera, lascia a perdere i farò, lascia perdere i dovrei, sii ora e sii qui, come diceva Baudelaire. Come se il qui e l’ora fossero una garanzia, come se essere unificati e presenti fosse sempre la cosa migliore da vivere. Perché bevo, mi chiedi? Per non pensare, rispondo io. Ci riesci, mi chiedi. Solo per un po’, rispondo io, e il giorno dopo è sempre un disastro, tutto raggiunge lo stomaco, chiamiamola ansia, mi dici, diamolo finalmente un nome alle cose. Poi la tua foto, l’arcobaleno di chissà dove, i tuoi nei per chissà chi. Dove sono io? Dove sei tu? Risposte semplici. Risposte complicatissime. Vorrei parlarti ora di mare, di paguri e conchiglie, di ricci crudi e lenzuola appese, nel tuo costume da bimba degli anni Sessanta, voglio dimenticare l’oggi e credere al sogno, l’immaginazione che crea futuri possibili e improbabili. “Futuro” è soltanto una declinazione dell’essere, ancora non esiste perché non si vede. Io lo vedo, ti dico, limpido e chiaro, lo vedi anche tu, sta davanti a noi dicono i più, io dico ci sta dietro, come la pensano in sudamerica: il passato sta davanti perché già visto e noto, il nostro divenire invece ci sta dietro e ci sorprende. Dove saremo tra un mese, tra un anno? Avrai tagliato i capelli o copriranno ancora il tuo seno tondo? Ti immagino seduta ora, qui, davanti a me, mi guardi e basta, mi guardi e poi ti giri e io, dietro, come il futuro. Prendimi le mani, fammi raggiungere il tuo petto, guarda la tua pelle che si dilata tra le mie prese forti, io posso solo immaginare il tuo volto, oggi, e domani ancora.

Foto: © Julien Magre

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Il uauauauao dell’universo

Non mi hai ancora detto smettila di scrivere di me. La voce di mamma, le pale del ventilatore e tu che stai in fissa cercando un’idea per combattere la noia, quando ti metti a favore dell’aria i tuoi capelli prendono il volo, ti chiedi dove se ne vanno, se se ne vanno e chissà com’è vivere sopra di te. Dal piano di sopra qualcuno sbatte forte le scarpe contro il pavimento che poi per te è il soffitto, è un bel ritmo per la tua chitarra così muovi le unghie colorate e ti fai voce e pensi che prima o poi anche loro apprezzeranno, che prima o poi tutto si avvera, che prima o poi smetterai di dirti prima o poi perché sarai quel poi. Sulle strade le sirene delle autoambulanze e dossi dappertutto per i nostri sbalzi d’umore. Così se ieri eri vicina oggi sei lontanissima. Ci diciamo sempre dove andiamo e mai cosa facciamo forse per paura di dire soltanto: niente. Oggi non ho fatto niente. Siamo qualcuno anche quando restiamo inoperosi perché il pensare, lo sai, è già azione. Arriviamo a sera stanchissimi e non riusciamo a prendere sonno. Tengo il cellulare tra le mani per farmi luce e leggo le notizie del giorno, i commenti alle notizie del giorno, le ironie sulle notizie del giorno. Io nemmeno lo so quanti sono cinquecento anni luce, ma su Kepler 186 F ci arrivo con l’immaginazione e penso, penso a come sarebbe il mondo che abbiamo immaginato insieme. Come tutte quelle volte che ci siamo parlati e tu non c’eri, come tutte quelle volte che ti ho vestita e vestita eri già, come tutte quelle volte che ti ho spogliata e già ansimavi. Tutto è relativo, gli universi paralleli e bla bla bla, io non ci capisco nulla e costruisco teorie fatte di vuoti da riempire. Pensa alle bottiglie di plastica. L’adolescenza dell’immaginazione quando finirà? Mi chiedi. Fai una cosa giusta, prendi la valigia e vieni, dimentica la valigia e vieni, chisseneimporta, l’importante è che vieni. Quante volte ti ho detto che il viaggio ti insegna che tutto è superfluo? Che basta il passo, le scarpe e una meta, che senza quella non si è da nessuna parte e un conto è non fare nulla e un conto è non essere da nessuna parte. Non ho imparato niente. Perché il luogo, lo sai, il luogo è importante, ti ho detto. Di che colore sono le tue pareti, oggi? Di che colore sono le tue gambe oggi, quanti altri lividi dei colori del tramonto punteggiano la tua pelle? Non ora, qui, mi hai detto. Ho bisogno di sentirti, non chiamarmi. Ho bisogno di scriverti, scrivimi il meno possibile tanto lo sai che rispondo soltanto se mi va e spesso non mi va. Perché, mi chiedo io, perché in presenza è tutto così semplice? Prendimi gli occhi e baciami forte tutta la notte, il giorno e il giorno dopo ancora, oppure girami intorno o intorno ti giro io, come davanti al ventilatore si confonderanno i nostri capelli. A cosa servono i satelliti se non a far sentire meno soli i pianeti? Ma non basta, dovremmo toccarci, credo io, è quello che muove l’universo, il desiderio di fusione che la vicinanza impone, se succedesse sarebbe un boom un boom boom boom, un uauauauo e l’universo scoppierebbe e scoppierei anche io e chiuderesti gli occhi tu, dilateresti le dita dei piedi e poi rimbalzeresti, stremata, sulle lenzuola sudate.

Foto: © Jo Straube

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Ordino una pizza, ti dico

Domenica è campane e chiese, domenica è letto, testa pesante, gambe leggere; domenica è luce chiara, prime ore del pomeriggio, solitudine di pagine bianche e desiderio d’incontro. Domenica è il treno e il lago, domenica è Chianti in tavola, rosso di prosciutto, pane spezzato, occhi che s’incontrano, tintinnio di bicchieri. Domenica è il tuo mento posato sulla mia spalla, a prendere aria con quel che si può, la strada il motorino e magliette sempre bianche. Stanchezza e vino e così tante cose da dirci che finiamo per farci silenzio. Tu, io, e le ferrovie italiane. In quei paesi dove tutti conoscono tutti, finestre come cannocchiali per vedere senza essere visti lo sporco delle nostre vite imperfette. Se t’immaginassi ora una sedia di vimini, le tue gambe aperte, la gonna corta e lo sguardo incollato al mio, se t’immaginassi qui, a cavalcare i miei pensieri confusi, a farmi ansimare fino alla piccola morte, per spalancare gli occhi mentre mi aggrappo alle tue spalle minute, la bocca dispersa sul tuo collo magro, vedere il muro e accorgermi del bianco. Di guardare il cielo siamo buoni tutti, puoi scriverlo in francese, in inglese, sulle infinite mura del mondo, sai, quel che importa è la coscienza, essere nell’istante, presenti a sé stessi, vivi nel frattempo, verrà il futuro, tornerà il passato, che importa? E il contorno, il mondo che ci gira intorno? Dobbiamo farci i conti mi dici, l’onda ha bisogno della spiaggia altrimenti fa danni. Bagnati come siamo, ti dico, zuppi d’immagini e desideri, mi dici, complessi e così semplici, ti dico, dovremmo non vergognarci dell’animalità dei nostri cuori, pensa al sangue che ci attraversa, ai nervi che si tendono, a quel che avviene di un gamberetto dopo che è entrato nella nostra bocca. Ti chiedo spiegazioni, scuoti la testa, mi baci. Rimaniamo sdraiati, guardiamo il soffitto. Metto della musica, mi dici. Ordino una pizza, ti dico, e il tempo scorre e il muro resta bianco.

Foto: © Giulia Bersani

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Chissà se te ne importa

Mi ritrovo a sussurrare nelle orecchie di altri quel che vorrei sussurrare a te. Dove hai dimenticato paletta e secchiello, dove conchiglie da appoggiare all’orecchio per sentirci meglio? Lasciamo la spiaggia ai gabbiani, ai culi accoglienti ed enormi delle madri delle periferie: sei bimbi tutt’intorno, pasta fredda, tè freddo, pianta del piede bollente e a quanti gradi il cuore? Non parlarmi ora dei rotocalchi, dei ninnoli d’oro, dei costumi firmati delle pause tra l’ufficio e le terme, dei viaggi organizzati nei paesi lontani, dell’amore per i balli di gruppo e dei muscoli del capovillaggio. C’è un amico che mi telefona dice mi sento così solo, lei mi ha lasciato, mi sta lasciando, mi lascerà, non ha più tempo per me gli chiedo e tu, tu cos’hai fatto per lei? Ti è bastato stare, stare, vi siete portati in giro troppo a lungo, farsi compagnia non è l’amore. L’amore cos’è? Mi chiede, io mi rifugio nelle frasi degli altri. Siamo così zuppi di lavoro, del pensiero del lavoro, dell’ansia del lavoro, della gratificazione del denaro, che non abbiamo più strade lunghe e camminate per parlarci, ma luoghi per riposarci dalla corsa, per guardarci allo specchio negli occhi degli altri e vedere noi, sempre noi e noi soltanto, non te ne accorgi? Lo sai che non so stare a un tavolo senza bere nulla, senza fumare, senza mangiare? Parliamo di cosa fare domani, dopodomani e trascuriamo l’oggi. E quando faccio sì sì con la testa spesso è perché non me ne importa nulla. L’Expo? La crisi greca? Le vacanze? Ieri sera al ritorno dal bar, maglietta sudata, non è nemmeno troppo tardi, vado a sentire Celestini, penso che bello. Quello inizia a parlare io lo ascolto, lo ascolto e mi ricordo di com’era una volta, e nel ricordo m’addormento. Al risveglio formiche ovunque, mannaggia alla mano appoggiata al tronco del tiglio, mi prendo a schiaffi, mi rivolto nell’erba, lui continua a parlare, chisseneimporta io penso a te, chissà che fai, chissà dove sei. Avrei dovuto portarti qui tra le amache, tra le formiche, a queste manifestazioni che non si sa se bisogna alzare il pugnetto o nasconderlo in tasca mentre si fa dei carabinieri barzelletta, non è un giudizio, sai? Dovremmo pur riconoscerci in qualcosa, arrabbiarci con qualcuno. Avremmo riso insieme, ce ne saremmo andati sul prato a raccontarci cose, a pronunciare ad alta voce i nostri vorrei, a dimenticarci per qualche istante l’insopportabile nostro sentire. Vesto di bianco da giorni e tu di nero, quando vestivo di nero eri bianca, siamo equilibrio lo sai, fai segno di sì, chissà se te ne importa.

Foto: © David Jiménez

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Restano gli animali

Rossi, sempre più rossi. Chiusi, sempre più chiusi. Dici è l’estate, la polvere, il sudore. Io dico stronzate, ne sto abusando. Lo sguardo chiede riposo a suo modo. Dove andare? Sostare in case con mura spesse, balconi grandi e prato e girasoli e cani dagli occhi azzurri che sventrano colombe e gatti dall’amore facile e cicale sonore e invisibili. Fare primavera col gelato e la panna del bar san Calisto a Trastevere, rimuovere dal tavolo i rifiuti degli altri, salutare il vecchio davanti al cesso, dire che caldo che fa come se non ci fosse cosa più importante e poi trovare il suo sputo di sangue nel lavandino, far scorrere l’acqua, lavarsi il viso, guardarsi allo specchio senza pensare alle generazioni, ai padri, ai nonni, a continuare la specie, a far sopravvivere un cognome. Un sigaro, un altro ancora, solo per il gusto di avere labbra impegnate. Non facciamo conversazione, che dobbiamo dirci? Non c’è nulla di indispensabile, nulla di così prossimo che richieda lo sforzo di comporre frasi, tu guardami, ti guardo anche io. Direi che ci bastiamo. E se ti annoi me ne accorgo, e se sei stanca ti chiedo che c’è? Sbaglio. Dovrei capirti ancora più a fondo, saper cogliere il senso delle pause e non aver fretta di dire quei ti voglio bene che avvolgono il cuore ma stanno male in bocca. La spiaggia di Capalbio, la pelle abbronzata di Paolo, il suo taccuino e le lettere scritte e dimenticate in spiaggia. La sagra sulla collina e i balli con le signore tacchi alti e profumi dolci, boccucce all’infuori, sei solo un giovanotto, mentre i bambini ridono, le adolescenti coi loro seni acerbi in mostra si azzuffano per un ragazzo vestiti stirati e muscoli sodi che accompagna la bionda a casa sul motorino comprato dal papà finanziere. Facciamo notte, spengono le luci, restate pure, noi ce ne andiamo, la cucina è chiusa, l’ultima birra la offriamo noi. Serve ancora parlare? Il lago, il mare, e una distesa di piante verdi, la brezza che spira da ovest, i miei capelli arruffati, dove sono le tue labbra ora? Su quale ventre si muove il tuo ventre? A chi concedi l’affannato piacere delle tue labbra rosse? Se continuo a tenere tutto sotto il controllo della ragione esploderò, lo sai anche tu, penso io mentre la lucertola s’è fatta strada sulla mia mano, sale sul braccio, la guardo, mi guarda, scompare sotto la mia maglietta. Solletico tra i peli, si spaventa, scompare. Rimango io, il mio corpo e il tuo lontani ora, lontani ancora. Restano gli animali a portare il tuo ricordo, i miei simili.

Foto: © Matias Costa

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Viva le foto su Instagram!

Ora che le mura disperdono il calore del giorno, dalla finestra frinire di irrigatori automatici, un vento leggero che muove le foglie, sul mio letto sudore e seme. Il cuscino e le pieghe sul viso, mi guardo allo specchio, chiudo gli occhi e non sono più, li apro e sono di nuovo. Chissà domani, chissà tra un anno, chissà tra dieci, che ne sarà del mio viso? Ci sarà una mano conosciuta capace di trasformarsi in carezza? E io esisterò ancora? La domanda sciocca che presuppone la fine, i piani sul futuro per sconfiggere la morte. Pensa all’oggi, dici, tu che al ‘de Medici proprio non assomigli. A che serve, spiegarti il perché il mio stomaco si contorce, perché i pensieri col buio si fanno molesti. Nell’ora in cui le zanzare scompaiono e i pipistrelli riposano guardandoci alla rovescia siamo stravolti anche noi, d’ansie, di desideri e del pensiero che anche quest’anno la nostra posta sarà avida di cartoline, nessuno più ci manderà un saluto scritto a penna e sullo sfondo un tramonto, un mare blu, tette tonde e sode, culetti depilati, muscoli e olio, grand hotel, madonne e monumenti storici. E le persone, anche le persone, non sono più quelle di ieri, sono cambiate loro o sei cambiato tu? Seghe! Meglio pensare alla mancanza di souvenir, al mio odio per i poster dei rotocalchi. Che appenderò al muro? Mi chiedi. Tieni lontano i designer dalle pareti della tua stanza, rispondo io, ora che le foto riposano nei cellulari e sulle mura regna il bianco che pulisce lo sguardo quando questo s’innalza, noi appoggiamo il peso sulle spalle per lucidare gli occhi tra i pixel, per essere sempre altrove, mai qui, mai ora. Vorrei dirti una cosa sciocca, tipo che il formichiere non ha i denti, soltanto lingua, chissà che succhiotti! Divento greve, lo vedi? Vorrei dirti una cosa saggia, tipo che il numero trentasei è chiamato Mondo dai Greci perché è la somma dei primi quattro numeri pari e dei primi quattro dispari, così abbiamo tutto il tempo per sentirci inadatti, poi viene l’intero, la coscienza del tutto, basta saper aspettare. Trentasei e sei Mondo, mica uno qualsiasi. Il tuo profumo, invece, non lo ricordo. Se fossi qui saliremmo sul tetto a fumare, a guardare i balconi e le finestre degli altri a chiederci quali altre vite potremmo vivere, come in quella casa in corso di Porta Romana, come quando Andrea tornava dal lavoro, due Moretti ghiacciate e una sigaretta, a dirci che se vuoi andare a Roma mica ci vai camminando all’indietro quando hanno inventato il Frecciarossa e pure Italo per nobile concorrenza, che la tecnologia è importante, fanculo le cartoline, viva le foto su Instagram. Ricordi. Il ventilatore qui, non si concede tregua, gira, gira, gira e non si lamenta, io invece sono pausa e timore, incapace d’attesa sono l’enorme mio sfogo, per essere qui e volere l’altrove, per l’impossibilità di fare del finito infinito. Di te.

Foto: © Philip-Lorca diCorcia

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Come i pesci: dimentichiamo tutto e apriamo bene gli occhi

Ti hanno pubblicato tutto, infami. Trentasei gradi e sudore a gocce sulle tue parole stanche, perché hanno aperto i cassetti della tua stanza? Perché la tua macchina da scrivere è esposta, perché ti hanno preso a calci, non ne avevi subite abbastanza in vita? Ti leggo con lo sguardo di chi ha trent’anni ma crede di comprendere tutto, anche le maree, le donne no, quella è un’altra storia. Ti leggo e sorrido, dico che è non è facile stare bene e scrivere bene, non è facile stare male e scrivere bene. Come se questo “male” e questo “bene” fossero due parole dense di significato, come se ci fosse il giusto e l’errore. Io prendo l’uomo a misura del tutto, innalzerei una U maiuscola sulle anime pure che si stupiscono del limp lamp delle lucciole, delle libellule che sfiorano il pelo dell’acqua. Lontano da noi le palme verdi, vicino a noi i cocktail ghiacciati, così ti guardo attraverso il bicchiere. I tuoi capelli neri e lunghissimi, il tuo seno scoperto, i tuoi capezzoli dolci in punta di lingua. Amico mio, scrivevi, tra una stella cadente e l’altra è il nostro destino, confusi, scontenti e sempre in movimento, capaci di stendere le labbra per fare uscire un wow e urlare al cielo la felicità dell’attimo. Se avessi studiato la musica le mie parole sarebbero canzone, chitarra e versi, per farti addormentare, mai per svegliarti, che il caffè è insuperabile. Amico, sei vermi e cielo, in quell’America che non ho mai visto e che non sogno mai. Lei è qui, più vicina di quanto tu creda, con la sua voce leggera e i suoi vestiti a righe, ti stupiresti alla vista dei suoi piedini. La notte scioglie la lingua e i pensieri si fanno caldi, prendo il motorino, sotto casa sua sotto casa sua, lei non scende non c’è, dov’è? Quando l’immaginazione sostituisce il su e giù del ventre che concede le costole, e scambio d’umori e di cuori, a intrecciare le nostre paranoie e proiettare sul soffitto le nostre ombre irraggiungibili. E i ventilatori suonano per noi e i vicini ci ascoltano e un po’ ci invidiano. Toglimi il cuore e fammi sanguinare, sdraiati sulla schiena, disegnerò sul tuo sedere le nostre vie che prima si allontanano e poi si incontrano e poi diventano una e non sappiamo a dove porta e siamo spaventati e siamo così belli. Ci guardano dai balconi, dalle finestre, ci guardano dai tram e dai cinquantini, ci guardano anche le malelingue, noi facciamo come i pesci, dimentichiamo tutto e apriamo bene gli occhi. Dalle parole di un altro alle tue, quali sentieri segue il mio pensiero, quali notti non ho dormito, quali giorni ho trascorso davanti ai pixel ad osservare le vite degli altri, a chiedere attenzioni, ad ascoltare canzoni che vorrei aver scritto io? “Baciami adesso, se puoi, baciami adesso se vuoi”, è così semplice, non l’hai scritto tu, non l’ho scritto io, basta una radio e l’informe ora prende ora forma e il non creato, si crea. Se solo tu fossi, io sarei. E tu, lo so, tu sei.

Foto: © Dimitris Triantafyllou

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D’amore si vive negli anni Settanta

Da qualche parte, lo so, si sta parlando di me. Son fermo con le quattro frecce e mi sorpassano a destra e a sinistra, io che guardo il cellulare perché non so dove andare. Se sei curioso, sei folle. Se sei invadente, fai paura. Se ti interessi, sei snob. Se sei snob, sei antipatico, se sei simpatico, ti atteggi. Se parli di figa, sei superficiale. Se parli di Proust, oddio che noia. Dimmelo tu come si fa a star sul campo qui, che non è il tempo dei numeri dieci lo so, bisogna correre correre correre e fare gol. L’invenzione non è importante, sai, meglio la barba, il tatoo, il vestito, gli amici che hai. C’è chi si vergogna a cantare Vasco, chi di Jovanotti fa una bandiera o carta igienica. Se tutti si sono dimenticati di Fabio Volo, io no e mi manca parecchio, tu sai perché. Non sono capace di atteggiarmi, ho fatto finta troppo a lungo, ora non mi viene più, ti scrivo in bocca al lupo, buona giornata, buona settimana, non mi interessa essere banale, essere retorico, pure il mio nome è comune e non me ne vergogno, anzi. Ti chiederò ancora di che segno sei, andrò a studiarmi i pianeti e le influenze sul tuo ciclo e sugli avvenimenti storici. Imparerò a prevedere le guerre, le tue lune e i risultati dei referendum. Un no o un sì pronunciati ad alta voce ci riempiono la bocca, a noi che la Bocconi la schifiamo ma ci guardavamo le fiche in minigonna e occhiali da sole e ora diciamo, embè che l’ateneo è importante, il lavoro è importante, i soldi sono importanti. Anche fare una famiglia è importante, e dar da mangiare ai figli, e ai figli dei figli degli altri. Pensiamo allo steccato e vogliamo le frontiere aperte. Ti ho detto ti amo e ora me ne vergogno, ti ho detto ti chiamo e tu non hai risposto. Siamo a questo punto, contraddizioni di parole e gesti, di quel tuo abbraccio che mi ha riempito le spalle quella sera Naviglio e lanterne, del desiderio dipinto sulle tue labbra e di tutti i tramonti che ci siamo persi, troppo impegnati ad ascoltare la musica con le finestre chiuse e le tende tirate. Andiamo al concerto stasera? A trovare i tuoi amici, a trovare i miei ricordi. Della spiaggia di Capo Passero, di mozzarella e pomodoro, delle tette di Arianna e del mare che non mi fa più paura. Di malinconie si muore e di velleità ci si inganna, di curiosità si soffre, d’amore si vive, suona così stanco oggi, negli anni Settanta, invece, spaccava di brutto.

Foto: © Cristina Altieri

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Son sempre stato bravo coi ti amo

Son sempre stato bravo coi “ti amo”, forse perché non m’importava nulla, forse perché non era necessario dirli. La menzogna in punta di labbra per penetrare le tue gambe bianche, le tue dita bianche sulla mia schiena bianca. Dei segni rossi preferisco non parlarne, li teniamo per noi, li terremo per sempre. Poi il silenzio, qualche ricordo, il tempo di un messaggio, l’ebrietà di una birra per tornare a cercarti. Ora tra noi non c’è savana di acacie spinose e baobab, nemmeno oceano e narvali e orche, soltanto il nulla di questo tempo che riempie le mie notti di vorrei, i giorni di farò, in continua tensione verso te, quello che non c’è, l’arco proiettato dei desideri ha sparacchiato le sue frecce contro l’azzurro inutile del cielo, mentre tu riposi tra braccia che non sono le mie, tra lenzuola di cui non conosco l’odore. Di te che ci sei e non ci sei questa distanza. Di te che ci sei, a notte fonda, polvere e farina di grano nei miei capelli, chissà nei tuoi. Di te che ancora non sei fiore per le mie labbra e nemmeno saliva, di te che tutto già sei e io ancora non so. A che serve invocare il passato, cercarti nelle fotografie. Le innumerevoli fantasticherie nelle pause, quando sostituisco l’immaginazione al reale, come gli infelici, gli ultimi della fila che cercano rimedio alla noia. Mi dici che tutto intorno regna l’amore del qualunque, la difesa del qualunque, la ricerca del qualunque. Il tuo sguardo non è sulla terra e nemmeno al cielo, un gradino più in alto della strada, dove non ci sono più retori ma cantori, dove il vino non è gustato, ma celebrato, dove i miei occhi non arrivano più. Rifiuto ora io lo spettacolo, la compagnia. Delle tue mani lunghe ho disegni a migliaia. Non li vedrai ora, né mai. Volevo andare in Grecia, servono i contanti, dicono, e io di zuppo ho solo il cuore, annegato, affogato che ho chiesto all’amico di sventrarmi con parole potenti, coltello affilato e riempire un vaso di vodka e tequila, senza sale né limone e posarci il muscolo più grande, perché in me torni il respiro, perché io sia di nuovo leggero. Un bambi, diresti tu, io mi incazzerei, forse non più.

Foto: © Benedetta Falugi, http://www.benedettafalugi.com

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