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Sotto ai maglioni invernali

E facciamole cadere queste stelle, modificare così un Filippo Timi che scriveva anni fa per Fandango. Non ci ho pensato, sai? Mi è venuta fuori di slancio, tutta colpa di Jack Kerouac che ci credeva in una casa felice, in una vita sensata, nel buon cibo, nei bei tempi, nel lavoro, nella fiducia e nella speranza. Ma era una delle poche persone al mondo che inseguiva davvero questo bel vivere senza andarsene in giro a trasformarlo in una specie di mezza filosofia borghese. Così alla fine gli è rimasta in mano soltanto una manciata di stelle, non dice mai se poi questi astri li ha lanciati o li ha soltanto custoditi per sempre traducendoli in parole. Lasciamole cadere diceva Filippo, lasciamoci illuminare dagli schianti, dai soli notturni che ci sorprendono quando fumiamo sulle terrazze.

Sai che ti dico? Lontano da qui, nell’ora più luminosa del pomeriggio, è nata tra i capelli neri un’infanta, figlia cadetta di un amore bello. Con tutte la paure lacrimate via in un giorno chiaro di gennaio, i collegamenti via web non regalano dignità agli abbracci e alle parole liete che fuoriescono dalle nostre gole nostalgiche gonfie di vino e caffè. I pugnetti a incorniciare le guance e una voce che non è ancora voce: vagito e richiamo. Labbra che chiedono vita e capezzoli e amore che gaio non sa trovar forme. Tutto questa confusione che s’infila sotto i maglioni invernali, gli incontri impensabili e i passi del ritorno a casa, le soste a guardare finestre illuminate e i versi degli uccelli nascosti tra i rami degli alberi. Tutte queste novità che non ci fanno chiudere gli occhi e le domande da tenere lontane, le candele che si spengono troppo in fretta e una pioggia leggera a risvegliare il volto.

E come in quel film con Vincent Gallo e i capelli lunghissimi mi ripetevo di non baciarti e ti tenevo sulle gambe come si fa con le bambole. Ti sussurravo quei c’era una volta che ci siamo dimenticati troppo in fretta e mi guardavi come si guardano le navi quando si allontanano, nessuna malinconia, soltanto il gusto di prendere il largo e immaginare orizzonti.

Così la notte si presenta più debole mentre i miei pensieri fanno luce sugli incontri, dicono evviva e invocano gioia. Dalle finestre chiuse, dalle piante verdi che s’arrampicano tra i balconi e aspettano i fiori della primavera. Ecco, l’attesa, non è soltanto una sofferenza, ma esplode come i geyser soltanto al mattino presto, il bavero alzato, e la brina che sfuma l’erba dei campi e nelle città lascia soltanto un profumo che i più non colgono, come quei fiori che porti tra i capelli, i denti di leone che si preparano al soffio per restare nudi, solo che non te ne accorgi, solo che non te ne accorgi.

Foto: dalla rete.

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Di tetto in tetto, di cielo in cielo

Stormi di neri, di tetto in tetto, di cielo in cielo. A raccogliere fumo bianco dai comignoli, scongelare il becco e tornare al canto. Dietro la schiena i lividi prati che circondano i nostri ovest e muri bianchi fatti per dividerci. Così proponevi una birra, tutti distesi dietro alla luce artificiale del televisore, consumavamo il tempo delegando il pensiero ai racconti fantastici degli effetti speciali. Svegliarsi presto per guardare l’alba delle città industriali, chiedersi che ce ne facciamo del tempo quando il riposo è un’arte per pochi.

Vorrei accarezzarti le dita, appoggiarle alle mie spalle, avvicinarle alle labbra e scriverti con la lingua le iniziali inventate di una storia mai cominciata. Ti siedi a gambe incrociate, io guardo dalla finestra, sbuffi tu, sbuffo anch’io, la neve fuori rende onesti i silenzi e il suo disfarsi tra i polpastrelli concede meraviglia.

Tra le travi in legno e il soffitto stanno incastrate le frasi dei libri che non abbiamo ancora letto, scendono il pomeriggio a illuminarci gli occhi, ad allargare il cuore.

Suonano intanto i carillon e non sai mai riprodurne la melodia, prendono i nostri nervi e li stendono come si fa con la pasta all’uovo, ci lasciamo scivolare sui letti con gli occhi semichiusi, il sorriso accennato.

E così il sole fa il suo, si sciolgono i ghiaccioli aggrappati alle grondaie e ticchettii allegri sulle strade, cappelli colorati e pelo, il primo ghiaccio a ricordarci l’equilibrio.

Ed ora ascolta le canzoni della tua adolescenza, stringi le gambe e allenta i primi bottoni della camicia. Vibrano le tue costole e ti chiedono intrecci, mentre c’è gente che ancora fa la fila per lavare l’auto e si preoccupa del tempo che non lascia impronte, tu aspetti i daini e l’imbrunire, apri il quaderno e scrivi: “Che cos’hai? Mancanza.” e poi Wim Wenders e immagini il Cielo sopra Berlino ti dico non serve, mi chiede se ha senso ragionare così.

Foto: Nicoletta Branco.

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Foto:

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La nostra estate delle marmotte

Gli acini gonfi le nostre voglie racchiuse a grappoli che scendiamo dalle colline il ronzio dei motori e per miele dei giorni il mercato in città. Le foto tragiche da cartolina che imbarchiamo ricordi a più non posso ma ci pensi lo sai a tutte le foto che abbiamo scattato? Una soltanto farò bella mostra sulle nostre tombe e tu non ci sarai saremo soli dei bellimbusti imbalsamati lo sguardo perso delle fototessere. Godiamo adesso godiamo ora che per i tagli aspettiamo autunno le vendemmie e l’attesa del vino novello. La nostra estate delle marmotte, mangiamo ora mangiamo forte e prendiamo spazio allarghiamo braccia sui materassi il benvenuto agli ospiti tra le nostre gambe sulle nostre tavole imbandite i racconti senza coda. E illuminiamo le notti coi nostri canti con le luci artificiali balliamo nei boschi fino a far planare le foglie e il luppolo i brindisi i nostri lieviti per diventare grandi. Poi, poi, dopo soltanto penseremo all’inverno.

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Era solo una notte d’un inverno passato

Come quella volta che diceva Bud e quella volta io dicevo Cla e lui diceva Rik coi giornali della provincia per rimboccarci le gambe. Coi discorsi sugli amici storici emigrati all’estero senza avvisare. Ed io me ne stavo zitto a ciucciarmi il terzo rosso della serata in una latteria di provincia che consegna il latte a casa alle vecchie e munge i cani prima di investirli.

E ottobre che corre a più non posso col freddo che lo insegue per rubargli le foglie.

E i pezzi di pane col salame , il lardo andato a male e i colonnati bianco sporco e i bagni senza chiave e noi a parlare di Berlino, Dublino e del cibo di Honk Hong che chissàpoicomesiscrive e pagare dieci euro in resti mancia, un caffè nero Balotelli e un amaro dolce chissapoiperché.

E non avere sonno mai.

Non diventare grandi mai.

E io devo lavorare addio non crescerete più.

E io c’ho da fare e intanto vai a scopare e noi soli e senza tetto e noi soli e senza un letto.

Facciamo i matti usciti dai manicomi, ci accompagniamo a negri, prostitute e preti e padri e figli cheerleaders con madri ponpon.

E la macchina la prendi tu che tanto non bevi più.

E tu non ce l’hai mai che tuo padre lavora per Sky.

E Milano da bene e Milano da bere e i nostri autostop vestiti male.

E in discoteca non ci fanno ballare e all’Hollywood non ci vogliamo entrare meglio sarebbe un centro sociale.

Se è chiuso o aperto non lo so. Caricati la macchina addosso e accendi, andremo e vedremo. E dammi da fumare come non ho fatto mai e fammi tossire o sputare.

Parcheggia là tra un barbone e una sigaretta per intossicarci le dita.

Che la pioggia si è fermata un poco a riposare tra le braccia delle gru.

E un cinque euro arrotolato per entrare, cascina Torchiera senz’acqua, che i comuni tagliano mentre le madri invecchiano. E gli slogan di sinistra e i murales visti in troppi posti e Milano dabbene andata a farsi benedire tra le rotaie dei treni.

E i poster del teatro, gli Artaud e il festival condominiale coi clown in divisa.

Vivisezioniamo i volantini che gli animali non nasceranno più.

Cosa resterà di questi anni zero.

C’è un palchetto poco lontano. Ci appollaiamo sotto come tante galline siamesi.

Cominciano a suonare gli scarichi delle auto blu, esce una tipa in tutu e i nostri cellulari si illuminano al posto delle stelle.

Birra Menabrea, lattine e testi scarsi.

I fili tesi tra gli impianti da rottamare. Le casse a palla che ti vien voglia di ballare.

Questa notte è ancora nostra diciamo noi e non andiamocene via che chi si astiene è ladro o spia.

E il batterista col capello lungo e il pettine a scandagliargli le vene e il fumo del nero, nero come i roghi degli zingari della stazione. Le stelle primitive e il Primitivo a sorsi.

E benedetta la notte che ci fa sudare e il camino che ci fa ghiacciare.

Shine on your crazy die… e il batterista nudo e i suoi compagni a urlarci negli occhi a farci ballare il fegato e a tenerci ancora in piedi.

E poi il falò per riprendersi dal sonno e le casse continuano a bruciare, le casse continuano a suonare.

E io e tu e questo cielo che non è più blu.

E sei vestita di righe che sembri in pigiama e una spalla fuori ed una sottobraccio per proteggerti.

Le tue amiche grasse. E i movimenti di bacino e la birra che ti bagna le labbra e poi ti sporca un po’.

E io al falò, a scaldarmi i guanti e a mordermi le mani, a farmi i sogni erotici con le pagine dei giornali da bruciare.

E il senegalese più magro che abbia mai visto che mi offre il nero.

E il fighetto milanese che chiede la carità.

E intanto tu muovi quel cazzo di culo e fai arrapare i pavimenti che non riescono a toccarti anche se si sforzano.

Che fine abbiamo fatto noi?

Italia-Spagna al calcetto 1 a 9, che il 10 è della fantasia, dei Diego, i Maradona e così sia.

Io e le parole che non ti ho detto mai, io, te e i miei guai.

Non fatto per farti ballare, non fatto per farti fumare.

Fatto per farti guardare. E guardami, non ti girare, non t’ arrapare.

E ancora i falò a bruciarsi i miei testi di ieri e i miei discorsi di domani.

Con l’oggi a rincorrermi e a chiederti: “Posso guardarti?” ed un tuo sì tra i denti scadenti come le birre Lidl.

E poi ancora musica, con i ministri del rock e i baroni del beat, e io che bevo birra e campo cent’anni e tu che esci sfatta dalla tua spalla nuda: “Usciamo insieme, oggi, domani o dopodomani” che giorni così non torneranno più.

E il tuo numero disegnato come un’etichetta e i tasti del mio cellulare troppo lenti e le tue parole poco chiare dammi da bere e fammi ballare.

Volti la sciarpa e te ne vai che forse non tornerai mai.

E ora caghino pure i barboni là fuori e si perdano i tram che ho la forza per correre la millemiglia.

Un tesoro in forma di numeri da chiamare mentre le coppie rovinano le sospensioni.

I capelli li porti male e il tuo naso mi fa tremare.

E buonanotte ai suonatori.

E buonanotte agli avventori.

E fuori a pisciare tra i copertoni, a prenderci i fulmini e spingerceli in gola.

Con le pizzette nei forni troppo mattinieri.

Le risate a forma di sigaretta che questa notte è ancora nostra.

Io a casa mia e tu a casa tua.

Non ho la forza per pensarti, non ho la forza per toccarmi.

E vomitare rosso come il vino. E asciugarsi le lacrime bianche e lavarsi i denti neri.

E poi la notte, il sonno e l’erezione mattutina come sveglia.

Svegliarsi nella ciotola del latte scaduto.

Gallette di riso e marmellata per iniziare la giornata.

Che fine abbiamo fatto noi?

Che Bud dorme di là.

Cla da mamma e papà.

Rick lontano dove non si sa.

E tu dove sarai.

Copriti la spalla che prendi freddo.

Bevi che prendi sonno.

Spegnersi in un Guccini andato a male.

Vedi cara è così facile.

E ti ho dimenticato. Era solo una notte d’un inverno passato.

Ora inseguo una casa di ringhiera. Due labbra belle. Un’incomprensibile silenzio.

E ti ho dimenticato. Era solo una notte d’un inverno passato.

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