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Bellissima davvero

La macchina fotografica a tracolla, con l’eskimo verde e i capelli biondi rasati sui lati trascorri il pomeriggio tra cieli bianchi e fabbriche, su questi campi feriti a verga, a far domande agli operai in pausa, pance gonfie di birra e mani sporche di grasso. Non c’è traccia di contadini là dove i bambini avevano le labbra umide d’uva, tutte quelle madri in camice che trovano in un gesto meccanico e ripetitivo il senso di una vita una volta immaginata e ora vissuta così, nel quotidiano svegliarsi all’alba, nel caffè sul fuoco e nei ritorni a casa col figlio che corre loro incontro, mani intorno al collo, col cane che appoggia la testa sulle loro gambe e si addormenta.

Non scatti tu, non ancora, chiedi loro come si fa a decidere di scendere dalla giostra dei divertimenti e dei viaggi, delle emozioni di notti trascorse a muovere il bacino tra le luci al neon, come si fa, signore mie, madri del mondo? C’è Giulia che è albanese, Giulia che ha i capelli neri lunghissimi, che dice in un italiano povero di accenti che quando fai un bambino e sei famiglia ti decentri, dice proprio così, che ti decentri e non vivi più per te. Le chiedi se è felice, risponde di sì, ti domandi se lei conosce davvero il senso di quella parola, non glielo chiedi. Poi decidi di fotografarla, lei non sorride, tiene le mani lungo i fianchi, ti chiede se hai finito che è ora di tornare al lavoro. Tu dici sì, grazie e lo ripeti quel grazie. Lei se ne va. Ti guardi intorno, gli occhi di tutte le altre, decidi di fotografare anche loro per non fare torto a nessuno, tutte dalla stessa distanza, per non fare preferenze, non ce n’è una che accenna una posa, qualcuna sorride, altre guardano in terra. Fai in fretta, che è ora, il lavoro le chiama e loro rispondono in fila indiana.

Te ne torni a casa quando il cielo si colora di rosa prima del buio, alla doccia il compito di far nuovo il corpo; ti abbassi le mutandine, ti guardi il culo allo specchio e accendi l’acqua, vai di vapore, il vetro tradisce la sua trasparenza. In radio una canzone che ti si ferma sulle labbra, così muovi la schiena che tanto nessuno ti guarda, muovi le mani e ti stringi le spalle, poi il seno, muovi le mani e ne desideri altre, magari sincere questa volta. Sgocciolano i tuoi capelli sul pavimento, il profumo dolce del bagnoschiuma e la lingua amara a domandarsi il perché di quel tuo disperato tentativo di capire gli altri. Non sei come loro tu, non finirai mai in fabbrica tu, i tuoi genitori ti hanno fatta studiare, non vogliono nemmeno che ti stanchi troppo, non ti domandano nemmeno che fai perché sanno che tu al momento opportuno glielo dirai e li convincerai della bontà dei tuoi giorni.

Un asciugamano sui capelli, crema sulle cosce, crema sulla pancia, crema sul seno, sulle spalle, sulla schiena, qualche pagina di un libro, un’occhiata ai tumblr preferiti, poi riguardarsi le foto del pomeriggio sullo schermo grande del Mac, cosa ti distingue da quelle donne in camice? Certo che sono bellissime, davvero bellissime, chissà se lo sanno, chissà se c’è qualcuno che glielo dice. A te lo dicono spesso, a te che poserai per le fotografie di un amico, a te che non hai timore a svelare il tuo corpo, a te che scegli la musica da far ballare ai tuoi coetanei nelle notti milanesi.

Mica te lo senti di dirti migliore, mica te la sente di dirti perfetta, eppure lo pensi, così domandi ancora un perché, il perché di tutto quel vuoto che ti sorprende nel mezzo delle notti, della tua incapacità di stare seduta a una tavola senza fare nulla, di dormire senza tranquillanti. Un messaggio, il cellulare vibra, poi suona, tu non rispondi. Ti vesti, una canotta larga, nessun reggiseno, i soliti pantaloni skinny neri come le tue unghie. Prendi un trolley e ci infili qualche mutandina, dei tacchi e un body. Fuori è buio e freddo, una giacca di pelle e una felpa col cappuccio, scarpe da ginnastica. L’amico fotografo ti accoglie nella sua casa tutta bianca, un caffè, la birra no che ti fa venir sonno. Lui prende la macchina fotografica, tu ti spoglia, ti cambia, tacchi e mutande, il trucco pesante, lui ti guarda, inquadra, ti dice di non sorridere, ti chiede di muoversi lenta, così pieghi la schiena, alzi le mani sopra la testa, gli occhi risplendono tra i flash. E si fa tardi, quasi mattina. Le sveglie suonano, qualcuno si sveglia, un bambino bacia le guance a mamma, mamma si lava la faccia. Tu appari su Instagram, bellissima, così, proprio bellissima, bellissima davvero.

Foto: © Giulia Bersani

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La naturalezza dei salici

Quando abbandoneremo i discorsi lunghissimi per legittimare la necessità del nostro fare?

Vorrei parlarti delle nuvole basse, del cambio di stagione e delle relazioni che abbiamo in comune, guardarti camminare con le scarpe nuove e i capelli raccolti, chiederti la ricette delle linguine ai frutti di mare e poi sorprenderti che ti accarezzi le guance e ti bagni il viso abbandonata a stanchezza.

Tutti questi discorsi a trapano nel cervello e l’io davanti a tutti come un mazzo di fiori da consegnare al primo incontro. Quando invece qui non ci sono rocce, la luce è rara e le piante nascono dentro ai negozi.

Mentre disdegno il frutto buono che non nascondi più tra le cosce, ti ho sempre detto che tutto quel che si palesa perde d’interesse. Poi siamo andati a vedere un Picasso e mi ha chiesto: questo è palese? Questo è un paese, ho risposto io, quei contorni segmentati e linee spezzate. Disordine e confusione.

Ci pensi mai a quando è decollato il primo aereo di tutta la storia degli aerei? Dov’è finito ora lo stupore? La spiego così la voglia di notti disperate, perdiamo il controllo in droghe e alziamo il tasso alcolemico seduti al tavolo della cucina.

E se rasassi i capelli sui lati asseconderei la moda del momento, chi te l’ha detto che è un male? Perché continuiamo a farci salmoni e tagliamo in due la corrente per farci notte? Quando invece le madri son tutte belle e i passeggini suonano il selciato dei parchi.

Mentre le associazioni di volontariato ci interrogano sui numeri del nostro conto in banca, lo sai quanti bambini hanno bisogno del tuo aiuto? Lo sai quanto mi manca un tuo saluto?

Eccolo qui il solco che ci divide, l’aratro ha separato le nostre nascite e quella ferita la dividiamo senza accorgercene. Lo sai perché continuo a farmi foto in primo piano e poi le metto sul profilo di Facebook? Perché il tempo cancella e una volta odiavo i ricordi mentre ora voglio avere chiaro il mio viso, i chili di troppo e muscoli tonici, le prime rughe e i capelli bianchi. Non esiste uno spirito libero se non si libera il corpo. Voglio imparare a nuotare, voglio imparare a ballare. E con la naturalezza dei salici chinarmi su di te e prendermi un bacio, uno soltanto, farci una foto per poi ricordarmelo.

Foto del 73545405-04-2456387 alle 20:25

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Nel taglio delle tue palpebre il colore delle farfalle

Nel taglio delle tue palpebre il colore delle farfalle.

Dei giorni spesi in rincorse, dei bagni freddi di marzo e tutte quelle risate che c’erano rimaste sul fondo delle t-shirt lunghissime; i volti delle star piangono lacrime all’unione dei nostri bacini per gli abbracci lunghi e la spiaggia.

I passi di danza inconsapevoli sulla sabbia rovente del mezzogiorno.

Gli orizzonti abbandonano boe nei mesi caldi, ci spingiamo al largo e beviamo e sputiamo e pisciamo nel mare, i frutti levigati delle bottiglie dei nostri avi colorano i tavoli bianchi. Le nostre colazioni, i colori vivaci del tuo vestito a fiori e lo sbocciare delle tue gambe senza petali. Poi nell’incavo tra le dita, i tuoi piedi belli, incastro pietre bianche per i miei ritorni.

Ricordi poi i combattimenti col cielo? Gli occhiali grandi e per i nostri passi lenti del pomeriggio, labbra bagnate e i colori dell’apocalisse, il rosso vivace, le nuvole ocra e il passo sgraziato dei gabbiani, le pennellate in bianco dei cirri e le caviglie bagnate circondate d’oro in granelli.

Raccoglierei questa spiaggia come si fa col riso, per portarla in bagaglio nei giorni tristi d’ottobre, il grattacielo senza finestre della responsabilità e i semafori lunghi.

Nel taglio delle tue palpebre il colore delle farfalle.

Ci siamo fatti occhi per tramutare le immagini in gioia e quella ferita si è fatta solco e poi baita per ospitare il mio seme, poi il tuo: le orchidee bianche che crescono nelle nostre notti.

Foto: Tim Walker, Butterflies

Photo editing: Neige

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