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Mai come i fossili

Dormire in piedi lasciamolo ai cavalli. I tuoi pozzi di petrolio al posto degli occhi e i complimenti inespressi dei passanti. Adesso che l’ora è cambiata siamo tutti illegali, mi dici, e mentre camminiamo ti chiedo il perché la gente si raduna fuori dai locali soltanto per bere una birra, rispondi che la curiosità ci guida e lontano dai tavoli e appoggiati alle auto riusciamo a osservarci meglio.

Le file al bagno per conoscenze superficiali e attraversare la città di notte perché non hai voglia di pagare un tassista. Finisce che quando balliamo non ci prendiamo mai sul serio e finiamo per annoiarci, così scavalchiamo i ponti del Naviglio tra file di neri e odori lisergici, gradini a due a due e volti stanchi: le urla degli ubriachi, le risa sguaiate delle compagnie e le camminate imperfette delle liceali in tacco dodici. Non serve domandare un senso alla notte, troviamo risposte nel sogno o al mattino.

Mi piace appoggiare la tazza del caffè sulla tavola e guardare i colori, sentire il profumo, scaldare le dita al vapore e sorseggiare con lentezza. Chi si lamenta di Instagram e chi invece crede che sia un’occasione per rieducarci all’estetica. Tutto questo fiorire di designer e architetti: disegnare la moda o lo spazio è ritrovare il gusto dell’osservazione. A nulla servono i confronti, ma troviamo il coraggio di dire che esiste una cura che va al di là dell’a tu per tu, che abitare nel bello ci rende più belli, vestirsi con gusto e distinguere i sapori, fare dello spazio un motore esigente, non un riparo. Mi guardi, mi baci, mi dici che noia, mangiamo un gelato, un frappè, aspettiamo un tornado. E metto ordine tra le righe del tuo pigiama e ti mordo le orecchie, mi domandi perché non ho tatuaggi, io alzo le spalle, ti dico non so è difficile scegliere.

Che hai voglia di fare? Restiamo a letto, ti dico. Finiremo come i fossili, mi dici tu, ci troveranno qui, immobili e perfetti. Mettiti in posa, ti dico io, non serve a nulla, rispondi tu. Sei così magra che potrei contarti le costole; fallo, mi dici, e finisco per perdere il conto, teniamo le bocche aperte senza dirci nulla. Le tue dita dei piedi così separate non le ho viste mai, pochi secondi e poi ti trasformi in koala. Penso che siamo imperfetti, non te lo dico, non serve a niente. Ti accarezzo la schiena e finiamo per scioglierci, le bocche chiuse, tu che guardi da un lato, io che guardo dall’altro. Esistono minuti dove non sei futuro e nemmeno passato, così presenti che non serve pensare. Quegli attimi dopo il sublime che non puoi descrivere, impossibile è il dire. Rimane l’odore, il lenzuolo, il calore. Rimane un’assenza di contatto che è vicinanza, non la sai spiegare, nemmeno io, finché troviamo il coraggio di uno sguardo e mi lancio in boccacce solo per farti ridere.

Foto: Nan Goldin.

Greer and Robert on the bed, NYC 1982 by Nan Goldin born 1953

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Come i marosi

Di chi ha dita così rovinate che sembra lavori nei campi o al bancone di un bar, che costruisca case e autostrade, invece no, è l’attesa che divora la carne e lacera i tessuti.

Così una goccia di sangue non è il passaggio all’età adulta, ma il girare intorno a se stessi che fa perdere la testa ed esplodere il cuore.

Hai voglia a prendere esempio dalle vite degli altri, non potrai vivere a lungo sull’è stato detto, andrà a finire che troverai uno specchio e ti chiederai ancora chi sei.

Mi dici che sono così noioso, che servirebbe uno shock di quelli forti che mi faccia dimenticare tutte le domande e mi trasformi in animale che non giudica gli istinti, ma li asseconda. Così se ti avvicino al muro, ti annuso i capelli, ti faccio girare e ti penetro da dietro dovrei dimenticarmi l’estetica, quella viene prima, ora è tempo di concentrarsi nell’estasi. Invece mi lancio in riflessioni come si fa col marmo liscio dei Rodin. E comincio a dirti che i quadri andrebbero trafugati alle fondazioni ed esposti alle pareti di case qualsiasi, mi guardi le spalle e mi chiedi: chi li ha inventati i musei? Così proviamo ancora a farci armonia, il mio ventre s’infrange contro al tuo come fanno i marosi. Tu sbrigli la lingua e citi l’espressionismo grottesco, io e le mie valvole in sussulto, poi il fischio lungo per tornare al porto.

Manca la musica, mi dici tu. Non la senti, rispondo io. Le parole rimbalzano tra i denti e melodie sul palato, che te ne fai dell’elettronica?

Faresti meglio a tradirti -mi lanci la maglietta, ti sistemi i capelli-, a prenderti meno sul serio. Io rido e stringo il cuscino, come i daini salto sul materasso, distendo le braccia, i palmi rivolti al cielo: dovrebbe piovere, le senti le prime gocce, vieni più vicina, salta anche tu, facciamoci branco. Ci pensi un poco, prendi la rincorsa e mi raggiungi, così a tuo agio nel nudo, così vicina che sembra Titanic, ti metti a ridere, certo che sei banale, sussurri. La senti la pioggia, una goccia, un’altra e una ancora, chiudi gli occhi, lascia che piova e poi fatti stringere, ti asciugherò i capelli più tardi, ora lasciati andare, finiremo per piangere o urlare noi che ancora sappiamo immaginare.

Foto: dalla rete.

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