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Alle altalene dimenticate sugli alberi

Alle scelte e ai progetti di lego dimenticati in soffitta. Di case di Barbie ristrutturate e altalene lasciate sugli alberi. Volevamo lanciarci dal pendio, il prato verde disegnato sui jeans e le capriole nel ventre della terra.

Ci siamo fatti grandi sbucciandoci le ginocchia sulle strade della provincia, le estati in Valfurva e le vesti nere dei preti. Che lasciavamo la chiesa per ultimi e ci sfondavamo di perché.

E poi le braccia si allungano e così si lascia andare lo sguardo, le vite diverse e gli sguardi comuni. Così quella fortuna che esige sudore: l’amore, ti sorprendeva a vent’anni e mani che si stringono per nuove conoscenze, lo spirito critico nella tasca sinistra e quegli aperitivi allo Spizzico perché eravamo poveri e ancor poco cittadini.

E poi il vestito bianco, i calici alzati e i viaggi nel nero dei continenti, le porte nuove di una casa tua e quel Santos nato in febbraio, che potrei anche sbagliarmi, che poi lo sai che coi numeri faccio schifo e pure coi rapporti a due.

E ora aerei e poi treni e punti di domanda trasformati in partenza. La paura dei vestiti inadatti e i chissà, le riflessioni sul clima delle città grandi e sulle loro lobby esclusive. Tutte sciocchezze quando scendi la strada e compri la pasta fresca al supermercato.

Ci scambieremo presto le idee, coi pensieri appesi alle pareti per i nostri ritorni. Della tua piccola con la cresta e dello sguardo dolce di papà.

E ora guardiamo dalla finestra e viviamo il presente, questo cielo che aspetta il vento per confondere nuvole e creare disegni. Che non c’è tempo per restare fermi, almeno non ora, almeno non qui. Aspetteremo la tavola per pucciare nel vino qualche traguardo e ricordarci che siamo altro, che siamo oltre, che le contingenze son solo piccolezze.

Foto: Sebastiao Salgado

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Nella valigia i vestiti più belli

Nella valigia i vestiti più belli. Dar aria alla pelle e cucirsi addosso giorni nuovi. Il disordine delle nostre camere separate e quei crocifissi che non osiamo più appendere. Volgere lo sguardo agli aerei e darsi il tempo per il linguaggio morse dei cieli contemporanei. Nei voli dei passeri le briciole della memoria dei terrazzi, le cene fresche di mozzarella e il profumo dei pomodori dell’orto. Non sono fatto per star seduto e poi farmi critico col giudizio dalle righe contate, il binocolo delle cronache dei quotidiani e poi l’avviso degli specchietti: quello che vedi nel vetro è più vicino di quanto tu pensi. E’ calma piatta nel mare affannato delle mie debolezze, il nulla cinge in montagne la baia chiara della mia interiorità. Salgono in arrampicata, desiderano riprendermi col dito indice dei rimproveri. Sostituirò le ore buie della notte con le prime ore del mattino, sorprenderò l’alba nel silenzio di una chiesa e ricostruirò la retina per poi tornare a guardare in orizzontale. Non ci sono palcoscenici che danno ebbrezze superiori alla solitudine a tempo. E apprendere dall’ordine i difetti del movimento, la bestialità del mio ingurgitare il cibo. Dei cinque sensi quel che mi rimane è la fretta. E allora lascio le comodità dei pixel, le ore liete dei giochi coi cerchi e le chiacchiere  sane dei coetanei. Userò due coperte di lana, ricomincerò a mettermi il cappello. E stretto nei maglioni invernali capirò dai tramonti le previsioni dei giorni a venire. E chissà tu, chissà. Un’isola, un letto, un negozio chiuso ed uno aperto. Trasformerò le mie invadenze in frastuono, donerò lunghi ululati alla notte, nelle mie righe lo scandaglio delle rive del passato recente e le bottiglie chiuse coi messaggi per le precarietà dei domani. E poi stammi bene.

Foto: Fulvio Roiter, Umbria, 1954.

Photo editing: Alessandra Tecla Gerevini

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Quel movimento lento che ricorda il mare

Il gocciolio delle ultime ore prima delle partenze degli altri. I panni stesi ad asciugare nei salotti e l’attesa aperta delle valigie. Quell’impronta sulla finestra che ancora porta il ricordo delle tue dita. C’eravamo detti vedrai che prima o poi diventeremo viaggio e così ci siamo trasformati in distanze. Non era quello il desiderio della mia ultima stella cadente, le aspettative sono fumogeni, ti fanno chiudere gli occhi e ti perdi nel colore e poi non rimane niente se non una piccola fiamma che lenta si spegne, e odore di zolfo. Sono ancora aperti i kebap mentre Milano svuota gli uffici e chiudono i bar per signore. E tutto questo caldo che ci spinge allo scontro, le frasi di circostanza e la banalità della luce d’agosto. Attendiamo i tramonti per quei Ramadam degli aperitivi cittadini, i parchi aperti e le feste di piazza dopo le levatacce e le ore rinchiuse negli odori stanchi dei mezzi pubblici, aria condizionata alla scrivania e una decina di caffè. E poi traffico e telefonate, i messaggi all’amico e l’organizzazione della serata. Gli occhiali stesi e la doccia, e un altro giro con speranze di conquista. Cosa ne pensi del mondo? Ho appeso un post it sul frigorifero per ricordarmi che prima o poi dovrò darci una risposta. Che io esco tardi la notte. Le birre bevute sul pesce non stancano mai, meglio sarebbe del vino, e prendere la metropolitana, arrampicarsi sui tubi per rubare l’aria ai finestrini come pesci rossi, con le bollicine che si accumulano sulla mia fronte. E poi ti ho vista da lontano e ho appeso i pantaloni al muro per prendere fiato. Volano farfalle tutt’intorno e non ce ne accorgiamo. Il fastidio delle zanzare e il ronzio delle auto in sosta. E un saluto e poi più. Prendere la via di casa e scriverti frasi lunghe una riga così ci fraintendiamo e rovistiamo nei sogni in cerca di risposte. Rimpiango ancora il fallimento dell’Eritrean Airlines, l’ultimo volo e l’attesa di quindici ore all’aereoporto, quando aprivamo le valigie per cambiarci le t-shirt e imparavamo la pazienza dalla pelle nera. Giocare a pallone coi capelli biondi degli israeliani e poi aria d’Africa a cambiare il contorno dei nostri polpacci, la siesta delle ore più calde. Lo sai che c’è? Vorrei pronunciare più volte il tuo nome, ma ancora confondo gli orizzonti, le lune delle tue natiche e labbra rosse, cieli di palpebre e notti di crini trascorse in veglia e poi tempeste e nuove piogge, se ti avvicini te lo racconto, non sono viaggio ora, soltanto amaca, pronto ad accoglierti e farmi culla per quel movimento lento che ricorda il mare.

Foto: © Alessandra Tecla Gerevini

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