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Con le pupille incastrate ai cannocchiali

Chiederti perdono per tutte le invadenze. Sedermi sulle tue ginocchia per aiutarti a piangere. Non parlare, ma stringerti i fianchi.

Non c’è nulla da fare, soltanto stare. Tutti i tentativi di vicinanza e il tuo profumo che non ricordo.

Se parlo non mi senti, se urlo mi faccio patetico. Sussurro agli alberi e il vento disperde. Chissà come la mangi la pizza, se la tagli e poi la prendi in mano o se sei elegante con la forchetta. Vorrei prestarti una maglietta per il sonno, regalarti al mattino l’apertura delle finestre e il primo sole che ti fa sbattere le ciglia e ti deforma le labbra.

Non ho fatto altro che immaginarti e rinviato il sonno all’alba. Nei miei occhi così aperti tutti i sogni rimandati, le case basse del centro Italia e lune che riposano tra i fili della corrente.

Come i cervi quando bevono alle fonti allungano il collo all’apparenza indifesi. Le corna larghe rendono irraggiungibili gli occhi e allontanano gli sguardi. Con le pupille incastrate ai cannocchiali ti dicevo come lo sanno che li stiamo guardando, come lo sanno. Dicevi è semplice, lo sai, è una questione di energie.

Ti ho preso la mano a distanza, ti pensavo così tanto che riuscivo a sentirti vicina, e chissà tu se l’hai sentita quella vicinanza, se ti sei cercata le dita e le hai trovate incastrate tra i miei capelli.

Foto: dalla rete.

cervo

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Alle altalene dimenticate sugli alberi

Alle scelte e ai progetti di lego dimenticati in soffitta. Di case di Barbie ristrutturate e altalene lasciate sugli alberi. Volevamo lanciarci dal pendio, il prato verde disegnato sui jeans e le capriole nel ventre della terra.

Ci siamo fatti grandi sbucciandoci le ginocchia sulle strade della provincia, le estati in Valfurva e le vesti nere dei preti. Che lasciavamo la chiesa per ultimi e ci sfondavamo di perché.

E poi le braccia si allungano e così si lascia andare lo sguardo, le vite diverse e gli sguardi comuni. Così quella fortuna che esige sudore: l’amore, ti sorprendeva a vent’anni e mani che si stringono per nuove conoscenze, lo spirito critico nella tasca sinistra e quegli aperitivi allo Spizzico perché eravamo poveri e ancor poco cittadini.

E poi il vestito bianco, i calici alzati e i viaggi nel nero dei continenti, le porte nuove di una casa tua e quel Santos nato in febbraio, che potrei anche sbagliarmi, che poi lo sai che coi numeri faccio schifo e pure coi rapporti a due.

E ora aerei e poi treni e punti di domanda trasformati in partenza. La paura dei vestiti inadatti e i chissà, le riflessioni sul clima delle città grandi e sulle loro lobby esclusive. Tutte sciocchezze quando scendi la strada e compri la pasta fresca al supermercato.

Ci scambieremo presto le idee, coi pensieri appesi alle pareti per i nostri ritorni. Della tua piccola con la cresta e dello sguardo dolce di papà.

E ora guardiamo dalla finestra e viviamo il presente, questo cielo che aspetta il vento per confondere nuvole e creare disegni. Che non c’è tempo per restare fermi, almeno non ora, almeno non qui. Aspetteremo la tavola per pucciare nel vino qualche traguardo e ricordarci che siamo altro, che siamo oltre, che le contingenze son solo piccolezze.

Foto: Sebastiao Salgado

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