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Sui padri

Come coi venti qui battersi è impossibile. Prendere a pugni l’aria o maledire il sole, esercitare il muscolo alle forze avverse, socchiudere le palpebre per non soccombere alla luce. Uno sforzo uomo natura, ribellarsi al mondo strappando l’erba dei prati, staccare i petali ai fiori e incidere le cortecce degli alberi. Poi il respiro pesante, il corpo in sussulto, le dita rosse, le mani rosse, il graffio del legno e terra sotto le unghie. Vuoi ribellarti? Fallo. Non temere. Dopo lo sforzo arriva la lacrima, la maledizione alla nostra inettitudine. Troppo grande una vita per abitarla tutta.

E’ carta, è tempo, è petrolio nero, è vite radunate intorno alla vacuità dei dialoghi di questi oggi ineguali e tristi. La calza nera e la camicia bianca, l’occhio bagnato e le mani agitate. Nel contrasto dell’a tu per tu tiriamo ancora in ballo i padri, noi, in questo luogo che non conosce radici, in questo tempo che non conosce grazie. Tiriamo ancora in ballo i padri e lo facciamo col punto di domanda quando dovremmo riservare il tempo all’abbraccio, alla sedia, alle conversazioni dei pomeriggi. La paternità è cosa grande, è carezza e calore, è solitudini e ferite, è esempio e ribellione, ma nel divenire si fa parola o silenzio. Non c’è altra via, nessuna. E allora ti sforzi e crei dei rapporti, che non sono legami, sono libertà e ripartenza. Mai troppo vecchio per crescere, mai troppo giovane per imparare.

Mi rattrista tutto questo chiacchiericcio, mi rattrista la superficialità dell’affermazione del sé. Quando rompere il cordone ombelicale è necessario e doloroso e l’essere umano si fa adulto quando lascia, taglia, abbandona. Il padre, la casa, la legge. E così episodio di sangue, ferita aperta che fa male nel ricambio del tempo. E poi pensiero, ritorno e carezza.

Perché fare del privato un pugnale per minacciare le gole dei nemici del patinato. Perché? Che senso ha? Quanto misero sei tu che ti spertichi in attacchi?

Quel che io so di mio padre è lo sguardo, l’odore della sua pelle, la sua barba sfatta e il dopobarba, come indossa i pantaloni e come cammina, come si ritrae dagli abbracci e come si lascia andare, poi come sposta gli occhiali, i difetti della pronuncia, il respiro di quando dorme, la debolezza e le forze, le nostalgie, le imperfezioni delle sue mani, quel che c’è dietro alle sue parole, la sua presenza, la sua lontananza. Porto i suoi segni sulla pelle, non me ne importa ora delle sue colpe, nemmeno delle sue virtù, ci vive oltre lui, oggi per me. Dimmelo ora se c’è bisogno di altro. Vuoi giudicare un’altra vita? Domandare è lecito, ma quale risposta speri d’ottenere. Rendi grazie al silenzio e torna a guardare il soffitto. E alla prossima doccia, nella tua cruda nudità, pensaci, non saresti mai cresciuto se non fossi stato voltato e rivoltato, amato. Non saresti tu ora, se non avessi la ferita che zampilla e poi le parole che frenano il sangue e ricostruiscono la pelle. Stronzo.

Foto: dalla rete.

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I moti rivoluzionari dei giovani oggi. Ex Cuem e Macao.

Disprezzo i giovani di questi ultimi trent’anni. Tutto il lager schiamazzante delle rivolte studentesche. Questa sciagurata età (tutt’altro che oisive) pericolosamente volitiva. Mummie foruncolose e imbellettate che, con la scusa di rivendicare e accattonare un mutamento, una riforma o altro, nidificano nell’autoconservazione. Questa perpetua assemblea è il confort della bestialità del branco. Di giovinazzi e giovinazze che, invece di sequestrare se stessi, “desiderando” (è l’etimo di “studio”) e progettando in tutto privato, s’illudono di “okkupare” una scuola pubblica allo scopo cretinissimo di conferirle “dignità” ed “efficacia” innovativa. 

Le parole di Carmelo Bene appese alle grondaie, la licenziosità consumata di certe bandiere arcobaleno e i balconi ospiti delle sigarette e dei caffè del dopopranzo.

Le giovini italie radunate in manipoli e le case aperte di stampo rosso. La privatizzazione dello spazio intimo e quelle aperture insalubri del mese d’ottobre. Vuoi dirmelo ora che senso ha occupare una libertà? La democrazia rappresentativa per l’elezione delle nostre pulsioni primarie e la ricerca spasmodica delle mani vergini. Esperire avrà mai a che fare con la speranza? E nel sacchetto della spazzatura i libri rossi e il vocabolario del ’68, guardate ora che ne è dei rivoluzionari.

I moti del carbonio per la scoperta delle nostre interiorità e poi le prime conoscenze e il desiderio di raccontarsi, non siamo soli e il nostro urlo non è deserto. Risuonano i nostri avvisi sulle bacheche, cerco un rimedio alla solitudine, telefonami o avvisami, domandami ancora il perché di tutte le nostre riunioni infinite.

Contro l’ignavia e i poteri forti. Contro la banalità delle potenze. Per la nostra retorica personale e i modelli di quarant’anni fa. Come con la moda utilizziamo i sacri verba delle foto in bianco e nero, le barbe lunghe e i parka, quell’eskimo prima innocente e poi simbolo.

Ora che l’Unità è soltanto un quotidiano. Ora che le case editrici confondono i loro fondatori. Ora che il tempo non si è fermato ci ritroviamo ancora in piazza a chiederci dove stiamo andando. E poi partiamo con le manifestazioni: lo stesso tragitto, le stesse musiche, gli stessi slogan. Hai voglia a confonderti e a tornare a casa col petto in fuori, per l’imbecillità dei più la tua rivolta collettiva e poi un domani che fare? Una casa, un lavoro.

E mentre tutto ti preoccupa decidi di okkupare e ci metti una k così che suoni diverso. Diverso da chi. Le tue tavole rotonde e l’accettazione della diversità senza domande. Fare e fare e poi rifare col pensiero confezionato degli altri. Inventiamo nuovi packaging per la fruizione dei più. E quando diventiamo troppi qualcosa non va. Che siamo noi, indie o comunisti, fascisti o soltanto idealisti. Ma noi, abbiamo bisogno di creare recinti come si fa coi pomodori perché per crescere bisogna difendersi. Ma gli ortaggi si danno in pasto ai più e non marciscono in proteste.

La realtà santa dell’offrire. Macao regala spazio e tavola rotonda. E gli studenti della Statale difendono l’ex Cuem, baluardo e simbolo dell’ottusa gestione delle risorse e delle proprietà pubbliche, vuoi dirmi ora perché anche i cattolici si raggruppano in movimenti? Vuoi dirmi come puoi difendere una povertà quando ti preoccupa il numero?

Il mio assistere imbelle e le mie giacche troppo lunghe. Cadono dalle mie maniche i discorsi che non so fare e i microfoni che non so impugnare.

La vita attiva e la vita contemplativa. Si è giovani una volta e più, la strada, il branco, il pranzo sociale e poi il ritiro, la quiete il pensiero. Per far prendere aria all’eskimo di papà e tornare nuovi. Un vocabolario e parole per bocche che sono stanche di stare nel nido e allungare il collo. Stanche di occupare gli spazi consumati degli altri e poi volare e poi tornare a primavera. Quando saremo capaci di costruire, non demolire. E per l’occupazione delle nostre coscienze saremo critici e reali, una mano al cielo e il piede alla terra. Che non si vola senza rincorsa e non si cresce senza modelli. E allora taccio e ritorno al Bene, e non saremo giornalisti frigidi e impermeabili, dai pezzi incorporati nel cinismo degli sguardi dall’alto. Saremo condor e cormorani, annunceremo il Leviathan e come tanti Achab saliremo sui ponti. E non parleremo e ci guarderemo negli occhi, basterà un cenno. La grande balena farà un balzo e saremo pronti a cacciarla. Per poi lasciare il mare e far ritorno alla terra.

Foto: Alberto Burri, Rosso.

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Nel taglio delle tue palpebre il colore delle farfalle

Nel taglio delle tue palpebre il colore delle farfalle.

Dei giorni spesi in rincorse, dei bagni freddi di marzo e tutte quelle risate che c’erano rimaste sul fondo delle t-shirt lunghissime; i volti delle star piangono lacrime all’unione dei nostri bacini per gli abbracci lunghi e la spiaggia.

I passi di danza inconsapevoli sulla sabbia rovente del mezzogiorno.

Gli orizzonti abbandonano boe nei mesi caldi, ci spingiamo al largo e beviamo e sputiamo e pisciamo nel mare, i frutti levigati delle bottiglie dei nostri avi colorano i tavoli bianchi. Le nostre colazioni, i colori vivaci del tuo vestito a fiori e lo sbocciare delle tue gambe senza petali. Poi nell’incavo tra le dita, i tuoi piedi belli, incastro pietre bianche per i miei ritorni.

Ricordi poi i combattimenti col cielo? Gli occhiali grandi e per i nostri passi lenti del pomeriggio, labbra bagnate e i colori dell’apocalisse, il rosso vivace, le nuvole ocra e il passo sgraziato dei gabbiani, le pennellate in bianco dei cirri e le caviglie bagnate circondate d’oro in granelli.

Raccoglierei questa spiaggia come si fa col riso, per portarla in bagaglio nei giorni tristi d’ottobre, il grattacielo senza finestre della responsabilità e i semafori lunghi.

Nel taglio delle tue palpebre il colore delle farfalle.

Ci siamo fatti occhi per tramutare le immagini in gioia e quella ferita si è fatta solco e poi baita per ospitare il mio seme, poi il tuo: le orchidee bianche che crescono nelle nostre notti.

Foto: Tim Walker, Butterflies

Photo editing: Neige

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