57 anni di David Foster Wallace

Di David Foster Wallace non ho mai finito un romanzo, mai. Li ho cominciati tutti, davvero tutti, de La scopa del sistema sono arrivato a pagina 447, a circa settanta dalla fine, poi mi sono stufato, ho lasciato il libro accanto al letto e ci è rimasto mesi. Infinite Jest: mi sono fermato a pagina 40, ho letto stralci qua e là, conosco le trame, gli incastri e i personaggi. Riesco a parlarne con chiunque senza che si accorga delle mie lacune. Sta nella libreria di fianco ai vocabolari (Rocci e Devoto Oli per la precisione) e alle guide dei vini d’Italia e del mondo. Coi saggi è andata meglio, son poche pagine e la prosa è differente, ne ho finiti almeno 4, sì, 4, letti dalla prima all’ultima riga (le note no). Il tennis come esperienza religiosa l’ho regalato, mi ha anche dato lo spunto per scrivere qualche cartella a tema “Del Piero e la poesia”, ma pigrizia ha voluto che quell’assurdo progetto non prendesse mai forma – ma almeno il gol del 3-2 alla Fiorentina rimarrà per lungo tempo visibile su Youtube e non c’è bisogno che qualcuno lo racconti –. Settimana della moda, Milano, quel che mi ha sempre attratto di David, in verità, sono le bandane e la magliettone larghe, le braghe corte, i capelli lunghi, gli antidepressivi e quell’ironia che solo chi è consapevole delle imperfezioni del sé e del mondo riesce a usare. DAVID-FOSTER-WALLACE, tre parole che stanno bene in bocca e pure nelle canzoni de I cani. Oggi tutti a dire “È nato è nato!” come si fa a Natale col Salvatore. La realtà è che, al di là dei vezzi narcisi e dello sbandieramento del proprio essere curiosi, intellettuali, colti o soltanto dei cazzo di nerd da tastiera, noi sconfitti ci affezioniamo ai deboli che ce l’hanno fatta, che sono riusciti a salire sulle labbra di tutti e sono morti del loro talento e della loro fragilità. Il David, che funziona con me, infatti, è quello delle interviste e delle conversazioni con editor e scrittori, là lo capisco, là scatta qualcosa e siamo amici. Io della cultura non so che farmene, dico davvero, ho studiato a scuola, mille e più scuole, studio ancora adesso ma scrivo peggio di dieci anni fa e ora che ho trent’anni e passa so che posso leggere un romanzo in una notte, sette romanzi in tre giorni tra lavoro e palestra e poi rimanere imbambolato davanti a Netflix per settimane e non sfogliare manco una pagina. Io sono un debole, un qualunquista. Io sono quello che la curiosità la esprime scrivendo a sconosciuti sui social e aspettandomi di cogliere l’essenza delle vite degli altri. Pensino pure che io voglia portarli a letto, sto soltanto rubando un po’ del loro tempo e della loro esistenza. L’intimità delle lenzuola è per pochi. Io sono quello che quando si innamora fa una o più cazzate per farsi abbandonare o risultare stonato. Io sono quello che gli antidepressivi non li usa ma ha una voglia matta di ficcarseli in gola. Con l’alcol è un’altra storia, ma sono problemi miei. Viva DFW, romanziere ribelle, culo da McDonalds, professore che avrei desiderato avere, amico da chiamare alle quattro del mattino quando la notte è più buia e nessuno risponde mai.

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Lunario

Lui è quello che aspetta: l’innamorato. Nell’ora scura prima del mattino la sveglia, vestirsi in fretta, la casa racchiusa in una borsa a tracolla. Nelle tasche denaro a sufficienza, un cellulare spento e le chiavi di una porta chiusa sul passato. Quaranta minuti di taxi nel silenzio sacro che annulla le domande di un autista invadente. Volano aerei sul mondo conosciuto, volano e sanno tutti dove andare in quello spazio di cielo che non conosce nuvole e temporali. Chiude gli occhi, felpa sulle spalle, aria condizionata nelle narici, il pensiero delle sue braccia lunghe delle dita leggere dei tatuaggi colorati che forse non la faranno unica perché lo è già, tutto il suo corpo teso verso di lei mentre la dinamica del movimento lo porta lontano. Un altro cielo, altra luce, altri tratti sul volto degli altri. Un po’ di paura lo prende allo stomaco durante l’atterraggio. E i sedili di un’auto che viene dagli anni Ottanta, vie strette, carri bestiame, la notte cancella i contorni delle cose mentre gli animali cacciano lunghi versi e le stelle rosicchiano la notte, la luna fa chiara strada che conduce alla sua nuova casa. Ci sono fantasmi incastrati nelle sue orecchie, timori racchiusi nelle pupille lucide e nere, ci sono parole che non vuole più pronunciare e immagini che si sovrappongono a un reale fatto ora di un hotel che dove è nato non potrebbe permettersi, una cortesia fatta d’inchini, petali di rose odorosi su un letto troppo grande, asciugamani modellati a mo’ di cigni che formano un cuore col loro becco di spugna. Dormirà solo, certo che se il punto più in ombra si trova sotto la lampada, basta stare alla luce, correre più veloce delle notti, spostarsi sorprendendo le stagioni, le aspettative, la ragione. Lui è sempre quello che aspetta: l’innamorato.

Giorno Due

C’è qualcosa in lui che lo fa destare prima del suono della sveglia, sono le cinque e quarantacinque di un giorno di pioggia. Tutti i progetti per sorprendere l’alba se ne vanno a farsi fottere; seduto al tavolo di un cucinino fatto di un fornello elettrico e un banco trafugato alle scuole dell’obbligo sorseggia il secondo caffè solubile, addenta pane stantio e una marmellata dolcissima, la lucina rossa del trasformatore della batteria della macchina fotografica gli rimane intermittente negli occhi. Che fare? Tutte le strade si possono percorrere ora, il bello dell’andare è non prendere nessuna decisione che non abbia fatto i conti con gli incontri, i desideri psicofisici e il meteo. Così abituato all’abbandono il suo primo pensiero è riempire di nuovo lo zaino, pagare quei tre spiccioli d’hotel, raggiungere la strada che taglia in due la grande città e alzare la mano bianca, trovare un driver e farsi largo lungo la sterrata. Mentre arrotola tabacco e cartina decide che questa volta no, bisogna stare. Raggiunge il cortile, una panchina di legno colorata d’azzurro pastello, si siede.

“Mi fai fare un tiro?” La turista bionda in un francese perfetto turba il silenzio. Lui annuisce, nulla può contro quel seno giovane che sporge da una canotta bianca troppo larga. Come ti chiami che ci fai qui dove vai da dove vieni quanto ti fermi. Fa finta di non capire, lui. Abbandona la sigaretta alle dita di lei, decide in quel momento che fumare al mattino non lo fa stare bene, troverà un altro gesto che lo aiuti a pensare. Io fuggo, le dice alzandosi, fuggo da tutte quelle come te, esplosive quando le incontri, complicate e silenziose in assenza. Fuggo dal me di ieri, fuggo dal mio desiderare l’altrove. Rimango qui, devo restare a disposizione, aspettare come un pacco in giacenza. Devo farmi trovare pronto. Se non te ne vai pranziamo insieme. Quelle come te non vedono l’ora di andarsene e rimanere nel ricordo. Lo dice nella sua lingua, lei non capisce. Fuma, alza le spalle e spostandosi i capelli strizza l’occhio sinistro.

Giorno tre

Piove da giorni ormai, le strade sono piccoli torrenti e la collina si scioglie in un’acqua simile a quella che scende dalle ginocchia di un bimbo che ha trascorso il pomeriggio in cortile a rincorrere il pallone. Lui ha comprato un paio di stivali in plastica giallo fluo in una baracca di legno dove si vendono anche galline e montoni; si era avventurato nella città vecchia, aveva percorso il sentiero dei templi su fino a una cima chiamata Kojoni, aveva deciso che sì, quello era il luogo in cui desiderava stare. Il volo di un calabrone lo condusse alle guance rugose e abbronzate di un vecchio, cercava le parole per chiedere se ci fosse un letto sul quale trascorrere qualche ora, magari una notte. Il vecchio ripeté due volte “Jusu” toccandosi il petto, probabilmente era il suo nome, poi annuì senza che lui avesse ancora parlato. Il calabrone emise un ronzio più forte degli altri e s’infilò nel buio, Jusu lo seguì e così fece anche lui. Venne la il tramonto, poi la notte; la luna concentrava i suoi sforzi per illuminare gran parte del cielo col suo tondo d’argento. E lei? Era certo che l’avrebbe sognata, in giorni come quello la sua sensibilità era come potenziata, sentiva una forza venirgli dal profondo, i suoi occhi vedevano più lontano rispetto al consueto, le sue orecchie captavano rumori mai sentiti prima, il suo cazzo s’induriva spesso tanto che anche il suo incedere appariva innaturale. Da un materasso impolverato gettato sul pavimento, senza cuscino né lenzuolo, senza ventilatori né aria condizionata, nel mese dei monsoni, lei venne di notte accompagnata dal calabrone, lo punse più volte con la sua bocca aguzza, lo morse coi suoi denti bianchi più del giglio, e si unì a lui fino a che fu costretto a svegliarsi ansimando, prendendo aria con la bocca spalancata perché si sentiva soffocare. Una risata lo attendeva dietro alla porta, quella di Jusu. Decise che era il momento di andare, lasciare la città, abbandonare la strada, prendere il sentiero della foresta, addentrarsi nel verde, guadare il grande fiume per arrivare là dove il bianco investe anche le case e gli occhi non riescono a restare aperti per lo splendore. Là dove il sonno è il privilegio degli amanti, la veglia degli anziani è una preghiera per la felicità dei giovani. Là dove lei era nata, dove lei affondava i piedi nella sabbia, dove lei era prima che tutto accadesse, lei che era per lui l’unico paese possibile.

Giorno quattro

Come un monaco, tra le terrazze bianche di una cittadina della costa, col rumore del mare che gli s’intrufola nelle orecchie e scandisce le ore tutte uguali della notte, precede il sole e torna perpendicolare alla terra facendo forza sui polpacci. L’orizzonte non si vede ancora, poche stelle in un cielo che si fa sempre più chiaro. Si è fatto rasare i capelli, indossa vesti nere, lascia sempre qualcosa nel piatto, non beve più alcolici. Nei giorni nuovi del suo andare si è dato regole sempre più nette. Non le scriverà più, non userà i social. No selfie, no stories. A chi lo incontra pare un sapiente, l’uomo spirituale che disdegna il vizio e guarda oltre al qui, l’altrove; quell’uomo che non può esistere: soltanto un pusillanime, un essere mediocre che così facendo vuole attirare l’attenzione dell’amata su di sé. Crede che una disciplina rigida accompagnata a un miglioramento estetico e funzionale del suo corpo scoperchino nuove energie che favoriscano il nuovo incontro. Una tartaruga si fa strada tra la sabbia muovendo le pinne come se nuotasse, lui, euforico per quel suo inquieto e folle vagabondare, si getta prono nell’arena e imita il rettile, raggiunge il mare e con quel piccolo essere di cheratina improvvisa un buffo balletto tra le onde, nuota verso il fondale e poi riemerge tenendo l’animale sul naso, un bacio sul carapace e poi addio, piccola mia, raggiungi il tuo orizzonte, sii libera tu almeno. Ora il riflesso dei primi raggi del sole invade i suoi occhi che si fanno piccoli, galleggia senza sforzi, pensa che prima di ogni addio ci vorrebbe un ballo o un bacio. Immagina lei stesa accanto al suo lui, oppure pensante e irrisolta in una vita che non le assomiglia. Immagina l’inconsistenza del futuro che lo attende: è partito senza una meta, senza un volo di ritorno, senza un obiettivo. È partito per lei, o per trovare rimedio alla disperazione che lo accompagna. C’è acqua nel suo naso ora, acqua nella sua bocca fin giù nei polmoni, acqua che bisogna sputare, acqua da abbandonare. Chi pensa troppo affoga, muoviti amico, raggiungi la riva. Una bracciata, un’altra, finalmente la sabbia. Prende ancora fiato, il vivo, l’innamorato. Ora che nudo, vestiti abbandonati alle onde, cerca ancora strada. Insegue il profumo del fuoco, desidera trovare il riparo nella cura di un suo simile, in una casa qualsiasi senza più un tetto fatto di cielo.

Giorno cinque

Appeso con tutte e due le mani a un ramo di una vecchia quercia si dondolava avanti e indietro sfiorando l’erba con i piedi nudi. Dai minareti il canto del muezzin per ricordare a tutti i fedeli l’ora della preghiera. Una coccinella sulla sua guancia, lui lascia la presa, atterra sulla terra dura, le ginocchia rispondono bene all’impatto. Giallo e nero sull’elegante livrea della piccola che le dicerie dicono portare fortuna ma se la si osserva a lungo la si scopre cannibale vorace. La città è lontana, gli ultimi richiami rimbombano un poco nel cavo dell’albero. Poi è silenzio e nel silenzio un vento sottile che gli scompiglia i capelli. In quell’insetto così piccolo sono riassunte tutte le contraddizioni che attraversano i suoi giorni. Bisogna conoscere l’infedeltà per penetrare nel profondo la fede, bisogna tradire sé stessi per conoscersi davvero. Tutti quei pensieri quando nella sua testa c’era soltanto l’immagine di lei: un costume a righe, la carne scura. Tutte le parole che avrebbero potuto dirsi e non si erano mai detti. Tutte le tavole che li aspettavano, i piatti da svuotare, le bottiglie da stappare. Sperava ora che le sue orecchie potessero udire il lungo richiamo del lupo, che i suoi occhi si potessero trovare all’improvviso a tu per tu con la bestia, che con un balzo spuntasse dal bosco un agile ammasso di muscoli e pelo, denti bianchi e desiderio di lotta. Desiderava sperimentare la paura, trovare il coraggio di affrontare un attacco sferrato senza un motivo chiaro. Fronteggiare il pericolo con coscienza era diventata per lui l’obiettivo ultimo, il perché del suo girovagare, dei suoi esercizi all’alba, delle sue prove di resistenza. Sapeva ora perché doveva lasciare la natura, raggiungere le strade, l’asfalto, i grattacieli, i semafori. Ora che i suoi muscoli erano più tonici, la sua mascella più forte, ora che non temeva di perdere tutto, ora, conscio com’era che la sconosciuta era l’unico motivo che lo spingeva a tornare. Perché, si ripeteva, non sono speciale io, non lo è nemmeno lei, ma in nostro incontro può generare, oh, sì, meraviglie. Si mise perciò a correre, lontano dal lungo richiamo del bosco, dallo stridere dei denti di lupo.

Giorno sei

Sull’autobus, la ragazza con le guance rosse e una capra seduta sulle ginocchia nel sedile di fianco al suo lo fissa. Accarezza il giallo del suo maglione con mani magri e abbronzate. Lui la guarda, le sorride, lei distoglie lo sguardo e allontana la mano. Avrebbe voluto dirle no, continua, ho bisogno di tutte le carezze del mondo. Il resto sono finestrini aperti e un vento gelido che taglia le labbra, odori di bestie e di urina – il mezzo non fa soste, ognuno si arrangia come può –. Il viso appoggiato alla spalla, gli occhi semichiusi, cerca una concentrazione che gli permetta di resistere alla nausea che avvolge il suo intestino, al colon che pulsa, alla vescica che urla. Stringe i pugni, serra la mandibola, è pronto a lasciarsi andare, a dimenticare il suo pudore tutto occidentale, quando l’autobus rallenta. Fuori le stelle dell’emisfero sconosciuto, la luna che ha imparato a chiamare da piccolo. Quando la porticina del veicolo si apre è il primo a uscire, sbottona i pantaloni, piscia sul ciglio di una strada che pare abbandonata. Poi si toglie il maglione, la ragazza e la capra lo guardano dal finestrino, lui si mette sulle punte e mentre il motore romba e la prima marcia muove le ruote lo passa alla ragazza le dice tienilo, lo dice in italiano, lo ripete. Lei lo prende, lo porta vicino al viso, presto si addormenterà. Sotto alla maglietta di cotone i suoi capezzoli si sono fatti duri, la pelle increspata dal vento, che fare? Bisogna trovare un riparo per affrontare la notte. Tutti ora dormono, la città è vuota. Segue il lungo verso del mulo, raggiunge una stalla e si corica sulla paglia. Sogna. Lei e i grattacieli, lei e i suoi profumi da donna, le sue unghie curate. Lei e il rossetto sull’orlo del calice, lei e quelle spalle ossute, lei e quelle scarpe a cui non può rinunciare. Tutto ciò che la rende irraggiungibile e irreale. Si è ripetuto a lungo che la felicità non sta nelle cose e nel possesso dell’altro, che bisogna avere il coraggio di svuotare gli armadi, sgonfiarsi l’ego a furia di fallimenti. Che l’amore che non è amato non può far altro che rendere più saggi. Sa che se tornasse nel mondo che lo riconosce sarebbero presto serate e neon, abbracci caldi di cosce sconosciute e capelli profumati, sa che potrebbe avere tutto, lui che a tutto a rinunciato. La felicità invece non la conosce ancora. Nel suo maglione caldo e pulito, ora, riposa nella pace delle montagne la sconosciuta. La silenziosa, l’amore di un istante, quello che altrove e altrimenti sarebbe impossibile. Libero e fanciullo.

Giorno sette

Cappuccio e bavero alzato, capelli che s’infilano negli occhi e si lasciano andare al vento sporgendo un poco oltre le guance. Grigie le nuvole, grigia la terra, grigie le sue scarpe scivolano nel fango. E acqua sopra la testa, acqua santissima. I contadini guardano il cielo con le bocche aperte, la vite si abbevera, il glicine china la testa e gonfia le radici. Quella che infastidisce il suo sguardo per la natura è vita, cerca di spostare il suo punto di vista, ribaltare il significato delle parole fatica, stanchezza, agio, riposo, tempo cattivo, tempo buono. Desidera andare oltre quel che il menù del mondo presenta ogni giorno. Davanti alla montagna spoglia d’alberi che sfila alta e scura tra il verde alberato delle sue sorelle il passaggio di un cane attira il suo sguardo. L’animale rincorre una farfalla dalle ali grandi color bianco spento, saltella sulle zampe posteriori, lei solleva il suo volo quel tanto che basta a scappare dal naso bagnato della bestia. La grazia sottile di quel movimento s’insinua nei suoi occhi, scende lungo la gola, fin dentro alle viscere. Ora un calore nuovo invade il suo corpo, la pioggia ha smesso di cadere, nel silenzio irreale del paesaggio sente un ronzio nelle orecchie, gli pare di sentire il suono del sangue che il suo cuore pompa fin negli angoli più remoti del corpo. E poi una lacrima, una ancora, il cane abbaia, la farfalla velocizza il suo volo, lui singhiozza ed è costretto ad accovacciarsi, prendersi il volto tra le mani, docile farsi guidare da quel sentimento inaspettato. Un singhiozzo e uno ancora, poi i denti si aprono in un sorriso. E il cane lecca le sue dita sporche e bagnate e la farfalla è scomparsa. Una gioia nuova lo attraversa, colpa delle follie della notte, del fallimento delle sue parole. Vigile per giorni, provato nel corpo e sempre in tensione verso una ricerca di senso nello spazio che il suo corpo può occupare, ora che la luna è nascosta si è abbandonato al buio e al vino, all’estasi delle piante sacre, ai riti degli sciamani e ha perso il controllo del sé. E proprio in quella notte lei si è avvicinata, l’ha fatto con un come stai, gli è parso di udirlo tra gli alberi, avrebbe dovuto avvicinarsi piano e ascoltare. E invece ha corso, si è spogliato, ha urlato forte. E lei? Che avrà pensato lei? Avrà avuto timore pensandolo folle? Crede sia ancora vicina, crede sia nascosta nel bosco. E chissà se quel sussurro tornerà, se lei avrà la pazienza di capire la lingua rossa che si muove tra la carne delle labbra, le parole senza scudo che vanno incontro allo sconosciuto. Questa la causa delle sue lacrime, questo il motivo del suo sorriso. Lei capirà, prima o poi capirà. E il volo della farfalla troverà riposo.

Giorno otto

C’è una città che nessuno riesce a vedere dietro alle lunghe file dei meleti, al di là della collina, lungo i chilometri di quella strada asfaltata da operai cinesi che come adolescenti annoiati hanno fatto il minimo indispensabile per portare a termine il lavoro. Cammina da ore al riparo di un cappellino con la scritta “Vans”, qualcuno ha pensato che quello fosse il suo nome, gli si è rivolto con un “Bonjour Vans”, lui ci ha messo un poco a capirne il senso, poi ha riso, infine gli è piaciuto. Ora si presenta così alla ragazzina al bordo della strada che vende noccioline e un caffè ormai freddo che ha preso il gusto plastico del thermos. Catalina, è il nome di quei lunghi capelli neri, delle ginocchia sbucciate, degli occhi verdi che timidi guardano la strada. “Posso mangiarle qui con te? Ne vuoi un po’?”. Si siede su una grande pietra e sorseggia il caffè, lei rimane in piedi, guardano nella stessa direzione. Lui le porge le noccioline che riempiono un foglio di giornale a forma di cono, lei allunga la mano senza spostare lo sguardo, ne prende una, una soltanto e la porta alla bocca. “Merci Vans.” Sussurra. Minuti interminabili e sguardi che non si incontrano mai, lui le accarezza la testa, torna in piedi, “Ciao Catalina, Ciao!”, si mette a correre in modo sciocco per farla ridere, Catalina alza lo sguardo, agita tutte e due le mani fino a che Vans scompare dietro a una curva. “Poveri cuori umani che battono dappertutto, nella vita non c’è altro che viverla e basta.” Si ripete mentre il suo passo riprende regolare. Non vedrà più Catalina eppure le ha voluto bene. Prova affetto soltanto per gli sconosciuti oppure riconosce in tutti l’umanità e per questo è capace di amare lo straniero? Le noccioline sono finite e la sua solitudine è vasta come i campi che attraversa. Tutto è desolazione, dice, ma nel suo profondo sa che qualcuno ora vocia di gioia, che in letti di legno opera dell’uomo, di plastica opera delle macchine, d’oro opera degli dei, si sta consumando l’amore, che in tutte le cliniche del mondo camici bianchi annunciano ora morte ora vita. E poi c’è lei. La lei che l’ha condotto al viaggio, il suo pretesto per tornare adulto. Come può la gente credere che i folli non siano felici, che tutta la malinconia non sia un modo tra i tanti di benedire i giorni? Non c’è ora luogo più triste di quella strada vuota, di quel tramonto e i colori pastello che nessuno può guardare con lui, con i capelli in disordine, le guance rosso fuoco, i muscoli sodi, bisogna far ritorno a casa, riempire il vuoto, trovare sguardi, che così si vive.

Giorno nove

Diecimila metri dal suolo, tutte le strade del mondo sotto ai suoi piedi, fuori dal finestrino azzurro di cielo e nuvole bianche a tappeto. Il sole che riflette sul vetro e il suo corpo che cerca una posizione comoda tra la plastica bianca dell’aeromobile. L’hostess in un inglese stentato gli ha proposto riso bianco e pollo con non so quali spezie. Lui annusa la confezione calda, sigillata nell’alluminio, ripensa all’odore delle vie strette, ai volti e ai mercati della piccola città. Chiude gli occhi pronto a entrare nel sonno là per le vie del sogno che ad alta quota si confondono al reale.

Piedi nudi e granelli di sabbia tra i peli del polpaccio, una lunga inspirazione yoga per riempire l’anima dell’aria che scompiglia le onde. E se il bene può entrare dal naso ecco che lui ora ne è colmo in un’estasi che lo porta ad aprire le mani per accogliere il nuovo mondo, sente le vibrazioni del ventre di lei, l’odore caldo della sua pelle, là fino ai luoghi sconosciuti del corpo di una donna giovane dove l’ombra regna e il respiro si fa più denso, i suoi occhi pozzi neri e profondi in cui cadere e intonare canti alla vita, il bacino stretto e degno di abbracci forti, di colpi decisi. Il risveglio è brusco, allacciare le cinture, ci aspetta l’Europa, un’altra città che è stata sua e ora è persa, altre strade che lo condurranno al ricordo. Tutte le domande che verranno, il cazzo che pulsa tra le cosce e il desiderio di santità rimandato al domani. Ora che l’umanità in piedi recupera il bagaglio e aspetta con ansia di tornare sulla terra lui, rimasto seduto, prova un impeto di pietà e compassione per tutti quegli esseri, dal più grasso al più magro, alti o bassi che siano, qualsiasi parola esca dalle loro bocche, i desideri nascosti, i vizi e le insicurezze, le grandi contraddizioni che scandiscono le loro vite, si sente un tutt’uno con le vite degli altri. Non c’è nulla di speciale in me, non sono che una piccola parte del tutto, l’essere uno e indiviso coi miei simili, lupo lasciato indietro dal branco. Animale perso e forse per questo vivo, e affamato, e a suoi agio con i peccati tutti. Trova il viso di lei in una donna persiana seduta ad attendere un bagaglio. Abbandona tutti quei pensieri stupidi, si fa vittima dell’ansia dell’andare, quei giorni nella grande città, ancora lontano da lei, li crede ora uno sbaglio. Ma Luis lo attende fuori dalla porta scorrevole dell’aeroporto, si abbracciano forte e caricato lo zaino sui sedili posteriori, salgono in auto.

Giorno dieci

Che ne dici un caffè? Ti andrebbe un caffè? Ce lo beviamo un caffè? Magari potremmo bere un caffè? Quanti modi per dire la stessa cosa. “On va a prendre un verre?” Qui si fa presto a dire vediamoci, solo le agende non coincidono mai. Luis lo porta al bar in cui avrebbe voluto trascorrere la sera degli spari e del sangue, dell’ubriachezza che in un istante si trasformò in rabbia e poi in disperazione, la notte insonne e la desolazione al mattino, le strade vuote e la coda silenziosa chez le boulanger per addentare un croissant e provare a non pensare all’assurdità del reale. Ci misero un poco ad accordarsi l’anima, lui parlava troppo piano e si guardava intorno, Luis lo investiva di discorsi con l’esuberanza e l’eccitazione di un amico che ha tanto atteso un incontro. Alla seconda bottiglia di vino il vociare che li circondava non dava più fastidio alcuno, erano racconti di un viaggio, del loro amore che avrebbe potuto essere e non era stato, del cuore magnifico di Luis che aveva realizzato il sogno di fondare una comune d’artisti nel verde fuori dalla città grande. Dell’egoismo di Vans – dopo aver ascoltato il racconto anche Luis cominciò a chiamarlo così – e del suo perdersi dietro a mille vite senza sceglierne una. “Capace che ci muori tra le tue stelle cadenti e i tuoi mari, capace che resti solo per sempre.” Ci sarà la natura a consolarmi, l’alba che non abbandona mai il mattino, la notte che è rifugio per tutti, so che non basterà e allora quando non troverò che il vento ad ascoltarmi verranno quelli come te, Luis, gli amici di sempre, gli amati. Lesse una poesia appuntata durante il viaggio spinto dall’ebrezza di quella notte di metropoli e vino, la lingua sciolta disegnava i contorni di una lei finalmente adulta, irraggiungibile forse, ma dall’esistenza vera e complessa. Luis lo guardò con gli occhi di chi ama e tutto comprende, gli accarezzò i capelli, lo baciò sulla fronte con labbra rosse d’uva e candore di fanciullo, disse che quei capelli bianchi segnavano il tempo della saggezza. “Non hai mai avuto muscoli così sodi.” Non sono mai stato quello che sono, disse Vans. Risero, brindarono. Sorpresero le ronde dei topi del Georges Pompidou, rimasero ore su una panchina sul lungosènna a guardare l’acqua scorrere. Mentre la città dormiva due cuori battevano forte e la luna che sconvolge ogni vita guardava dall’alto specchiandosi sugli occhiali di Luis.

Giorno undici

In quelle loro bocche, negli aliti di vino e sigarette, nei loro occhi ormai piccoli e nelle finestrelle della città grande che s’illuminano una dopo l’altra annunciando il nuovo mattino, c’è un mondo fatto di uomini che confondono il tempo: il sonno soltanto quando necessario, luce e ombra, sole e pioggia, freddo, caldo, variabili accolte con gioia per non fare concessioni all’abitudine, per tornare a parlare all’animale che da sempre abita l’umanità intera. Zaini e valigie, i ribelli del nuovo secolo che senza rabbia alcuna ma spinti dalla gentilezza e dalla curiosità rifiutano di entrare in quel meccanismo che costringe a contare le ore, a sentirsi liberi soltanto nel fine settimana, poesie declamate nelle piazze, libercoli scritti a mano, viaggi di un anno e più alla scoperta dello sconosciuto mondo. E follia di musei dati alle fiamme, desiderio del nuovo in tutte le sue forme. A morte Shakespeare, tagliamo la gola al Petrarca! Ridono con le teste ormai pesanti, sulle biciclette prese in prestito dal comune di Parigi fanno ritorno a casa, spingono la porta con le ultime forze, Vans s’addormenta all’istante sul pavimento, Luis lo guarda, vorrebbe stringerlo a sé, accarezzargli il viso, le spalle, la schiena, dormirgli accanto. Rimanda il desiderio in gola e sente lo stomaco bussare forte, corre al bagno e rigetta tutti i pensieri della notte, l’alcol, i sogni e i desideri nella tazza del water. Due colpi d’acqua e tutto scompare. Non si può chiamare notte il sonno di due spiriti ubriachi nelle ore più calde del giorno quando gli operai con le maniche rivoltate fanno a strisce bianche la strada nera e i bambini in sciame con cartelle colorate sulle spalle abbandonano le scuole. Chi troppo sogna dimentica il mondo. C’è una vita dello spirito che fatica a allinearsi al quotidiano, la sfida grande di chi ha coscienza di molto e molto ancora ha da sbagliare. Di chi non accetta l’egoismo e sfiora la strada per non ferirla, rivolge parole buone ai vecchi e fa ridere i piccoli, pazzi che con gesti imprevedibili lanciano scorci di libertà possibili sull’universo intero. Poveri piccoli uomini sconfitti da una notte di slanci e preghiere alla vita, giovani sconfitti dal sonno, che il mal di testa aspetta al risveglio.

Giorno dodici

Tornare, come se tutto si riducesse a un gesto. Ci sono luoghi in cui si può essere felici per un tempo limitato, segnali del proprio corpo da cogliere, pensieri che hanno bisogno di un materasso con impresso il calco della schiena per poi trovare riscontro nel quotidiano esistere. Parigi era tutto per lui: la libertà, l’amore, l’essere sconosciuto tra sconosciuti, il potersi rivelare ogni giorno in una nuova identità, la rive droite e il corso lento del Canal Saint Martin rifugio per pomeriggi inoperosi e notti senza direzioni, quel giorno in cui davanti allo specchio di rue Saint Maur si era rasato i lunghi capelli e tagliato la barba perché sentiva fin tra le dita l’energia forte di una nuova vita che gli si spalancava davanti. Ma il tempo coi suoi giri e la consapevolezza che porta lo conduceva altrove. È cambiato lui, non i luoghi, la febbre del conoscere le esistenze degli altri, le possibilità del vivere adulto, l’essere ovunque da nessuna parte, non gli interessano più. In quella camera cosparsa di vestiti e libri, di polvere e tabacco, in quella camera dove il sole non c’è, chiude lo zaino e indossa scarpe chiuse, nere di corvo e di notte. Milano è lei, lei e tutte quelle come lei, rare e per questo desiderabili, lei diversa da tutte le altre, lei per la quale è pronto a perdere le strade tutte per sperimentare una libertà nuova. Lei e il suo silenzio, lei e quel: sei tornato, io sono qui, che tarda ad arrivare. Lei che cercherà nei vicoli dei Navigli, tra i ristoranti per i turisti col loro pane posso e il risotto precotto, l’elettronica dei club e le magliette a tre quarti dei ragazzini, le barbe curate dei nati negli anni Ottanta. Ora la immagina in bicicletta, gli occhiali da sole a nascondere gli occhi, un cellulare che vibra in una borsa stretta, soltanto delle unghie non sa prevedere il colore. È l’ora, un taxi lo aspetta sotto al portone, ha salutato Luis poche ore prima, un abbraccio lunghissimo e una pacca sulla schiena, un bacio ricevuto sul neo, sono i vizi dell’amico e bisogna accettarli. Bonjour, carica lo zaino nel baule, apre la portiera e via verso l’aeroporto. Dal finestrino semafori e baguette, vestiti a righe e rue lunghissime. Nessuno gli siede accanto, le capre e le noccioline un ricordo sfocato, è una freccia ora, pronta a ficcarsi nel ventre della metropoli e tagliarne il cemento, poi là rimanere.

Ti ho vista in televisione

“E quando si ritrovarono anni dopo, in una casa sul mare, lui ebbe la certezza che lo avrebbe amato e che nello stesso tempo che questo non sarebbe mai più stato possibile. Né in questa, né in nessun’altra vita.”

Camere separate, Pier Vittorio Tondelli.

Nella nebbia grigia di smog semafori rossi diventano verdi, rotonde per sbagliare uscita, prendere la via più breve per venire da te e perdersi fuori dalla circonvallazione. Le indicazioni chieste all’uomo e al cane che tiene al guinzaglio, le automobili che non abbassano il finestrino per paura dei ladri. Mille pistole nelle mie tasche. L’insegna rossa del bar Basso, il rosso dei Negroni, degli occhi dei pubblicitari in libera uscita e delle loro Vespe parcheggiate male. Un adesivo dei Foo Fighters appiccicato al palo a cui mi appoggio per fumare un sigaro, il primo dopo tanto tempo che quando fumo mi ricordo di te. Mentre lei se ne sta col suo ragazzo, li guardo così vicini abbracciarsi e resistere al mondo. Di nuovo in moto, i settanta all’ora in piazza cinque giornate, i Navigli. Sotto il tuo portone per aspettarti. Ti chiamo, non scendi. Busso e non apri. Peppino per ascoltare il jazz, un bicchiere di vino scadente e a piedi per via Vigevano sono tutti belli, sono tutti profumati, troppo profumati, troppo belli. Cambiare il nome per entrare a scrocco in un pub e salutare e andarsene dopo neanche dieci minuti. Pensare che la notte è ancora maestra e la solitudine a volte condanna, non scelta. Ho lasciato tutto e tutti per cercarti e nel deserto mi confondo. Ti ho vista in televisione. Se tu mi amassi cosa cambierebbe? Riusciremmo noi a resistere al mondo? E a noi? Né in questa, né in nessun’altra vita.

Foto: © Joel Meyerowitz

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Elephant

Si era costruito una tenda con il piumone incastrandolo sotto la testa e sostenendolo con le gambe piegate, la sinistra sulla destra, lui sdraiato, il MacBook sul petto e la luce dei pixel a illuminargli il volto. Al sicuro dal mondo sceglieva foto per una rivista on-line mentre ascoltava “Elephant” dei Tame Impala. Annoiato, si ritrovò sotto agli occhi una foto di lei, e fu buio. Quella sangria mai finita, gli spettacoli osceni dei teatri milanesi, il francese come lingua incomprensibile. Volano i corvi, volano gli anni e le particelle di polvere sui libri, sui comodini e sul passato prossimo. Fu in un pub sul canal Saint Martin che comprese le prime parole francesi durante l’elezione di un Papa, quel giorno che a ottocentosessanta chilometri da casa lesse una email e capì la sofferenza che provoca il rifiuto di un manoscritto che quella dell’amore la sperimentava da tempo. Visto che non riusciva più a farlo su carta, cominciò a scrivere sui muri, poi sui ponti infine sulla pelle. Godeva nel farlo, non come il seme che se non feconda non lascia traccia, la parola resta, anche per poco, resta. E meno sono le parole più chiedono di essere lette. Era la foto del mare e dei suoi capelli, era una foto come ne aveva viste chissà quante ma sapeva delle vene della mano di lei a regolare il fuoco, della forma del suo viso mentre pigiava il tasto della macchina fotografica. Quella vista gli ricordò quel che sapeva dell’amore, e che a nulla vale chiedere qualcosa in cambio. Si chiese il perché in quel momento d’esistenza che si trovava a vivere pensasse che nessuno fa niente per niente e che il principio delle relazioni è lo scambio, o l’interesse, o il desiderio. Si chiese cosa lo trattenesse tra le lenzuola un pomeriggio d’ottobre, dove fosse lei, se fosse felice. Si chiese se avesse senso cenare il giovedì sera con una donna, guardare X-Factor, commentare i cantanti con la superbia che dona il distacco, tornarsene a casa dopo i sorsi ai bicchieri di vino. Desiderò alzarsi, spendere i suoi soldi, spenderli per non comprare nulla, scommettere. Non sui cavalli, non sui galli, nemmeno sul calcio, sul tennis. Scommettere sui sentimenti. Fu così che morì povero, con un MacBook sul petto, illuminato soltanto dai pixel.

Foto: © Giulia Bersani

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“Viviamo per desiderare, e così farò anch’io, e balzerò giù da questa montagna sapendo tutto alla perfezione o non sapendo tutto alla perfezione pieno di splendida ignoranza in cerca di una scintilla altrove.”

Jack Kerouac

Viviamo per desiderare, un’espressione che il caro Jack contorna di grazia e scintille e che in bocca, sola, muore presto. Desiderare cosa e chi e perché. Quando riusciremo a bastarci moriremo ignoranti, ti ho detto, hai sollevato le spalle, le tue spalle magre, le tue spalle, oh, una meraviglia. Ci siamo ritrovati a far su e giù, la schiena al muro, i tuoi capelli che a tirarli non finiscono mai, le nostre bocche deformi. Forse così sono i mostri, soltanto animali che al riparo del bosco si lanciano in versi e rincorse. Non fanno più paura, non siamo più bambini, ti dico, mentre gioco con le tue labbra, teneramente gioco. Nella retorica dell’anch’io sono pieni i social e le televisioni. Un’espressione generica e nulla. A ribadire il confine che separa i generi. Il meccanismo dell’invadenza, del dominio, dell’egoismo che impregna la corda tesa del mondo si sciorina negli incontri. Nulla di che sorprenderci. La reazione buona è lo scandalo o l’accettarsi umani e per questo deboli? Quando, il tuo gesto e il tuo fare sono stati sgraziati, quando il tuo pensiero ti ha imbruttito i tratti, lo sguardo, ha violentato i tuoi gesti? Fare e pensare, cogli ancora la differenza? Abbiamo tutti cicatrici visibili o no, alcune fanno male, altre meno, alcune attirano sguardi, altre meno. Ci sono vite semplici e altre più complesse, dice il ragazzo che guarda dalla cima della montagna, da lassù uomini e donne si confondono, tutti la stessa silhouette. Troviamo il modo di separare ancora, fosse almeno il tuorlo dall’albume, fosse almeno per un desiderio di ricomporre poi, di ricreare, poi. La tua spalla, il mio petto, le tue dita lunghe, il mio neo. Dimentichiamo in fretta i problemi del mondo, mi dici. E il cuore continua a battere, soltanto il ritmo cambia.

 

Foto: © Marianna Rothen

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Salvezza

Viene buio ormai presto e nella piccola provincia è tutto un chiudersi di persiane al nascondersi del sole. I vecchi disertano le piazze e riempiono i bar occupando di carte il marrone dei tavoli. Sul fuoco minestre e patate a bollire nell’acqua, qualcuno ancora sa come si prepara il purè. Nella grande città scintillano le bollicine nei calici, il prosecco e il ghiaccio confondono il gusto dolce dell’Aperol. Un bicchiere, poi due, se prima i soldi non bastavano ora si pesca nel fondo delle tasche che per consolare l’anima occorre procurarsi il terzo. Così, storditi e zoppicanti, si torna a casa ascoltando soltanto i bisogni primari: pisciare, mangiare, trovare un corpo per alleggerirsi del seme. Poi il letto, il lungo sonno prima della sveglia. Il lavoro come una performance, i colleghi che diventavano amici, le conversazioni sul perché continuare questa vita. Le intolleranze, gli egoismi, le opinioni non richieste. Scavalcare i trenta e ritrovarsi con la vita che si è scelta ma che si immaginava diversa. Prima il viaggio, stendere la mano e prendere possesso del mondo, poi i diritti dei più poveri, l’attenzione alle minoranze, e ancora l’arte, la creazione, poi l’amore e la soddisfazione di tutte le curiosità, le grandi città, i traslochi e infine la casa, la moglie, i figli, il giardino e due, quando va bene tre stanze. Una passione, se si trova il tempo. Mi hai salvato tu, non riesco nemmeno a dirtelo, sono stato nel vortice dell’adolescenza, nel temporale delle velleità, poi il silenzio e il lungo ritorno a me, con i vestiti che mi si sono asciugati addosso sotto il calore dei mille e più soli che ho attraversato. Il mio cercarti, ora e sempre, è salvezza, è quel mondo tanto immaginato e mai trovato. Tu e nessuna provincia, nessuna città. Tu, motivo di ogni mio sbando, di questa mia tenera, fragile, immatura ed eterna giovinezza.

Foto: © Ren Hang

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Vulcano

E ancora, caffè e qualche auto distratta. I vicini consumano corpi contro al muro. Un’ululato annuncia il termine della notte mentre Spotify fa fatica a suonare le canzoni che tu mi hai mandato. Scelgo youtube, è tutta una pubblicità. Fossimo soltanto voci potremmo raggiungerci, ti dico mentre allunghi le gambe sul lenzuolo e la tua pelle è calda e le tue cosce ardono e i tuoi occhi sono ancora chiusi. Allungo le mani per accarezzarti e non ti trovo. Sempre la stessa storia che vuole notti diverse dai giorni. Tu ti trattieni eppure sei torrente, hai costruito argini forti ma nulla io posso contro la corrente; una bracciata un’altra, il piede a far forza sul sasso, schizzi di te sul mio volto, sudore e lena, desisto. Troppo forte il tuo scorrere per non lasciarmi andare. Dici hai un cuore così piccolo che avverti le minuzie ma non abbracci il mondo. Dico se io fossi vulcano, molto sarebbe inondare in lava tutto ciò che mi circonda. E quando sfumerò e perderò calore, i miei resti contribuiranno al nutrimento delle vite. Quando anche tu, donna del futuro, di me berrai, e brucerai in fondo alla gola, deglutirai felice il nettare che regala ebbrezza. Sarai felice tu, sarai un risveglio.

Foto: © Kohei Yoshiyuki

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Fuoco

Senza connessione acqua calda né gas. Fuori dalle cartine, senza previsioni meteo né cartelli stradali. Tu e una sedia di velluto rosso. Le gambe nude, il tuo piede magro. Per ascoltare il respiro ho teso l’orecchio. Guardavi in basso tra le pagine di un libro, non leggevi. Chissà il tuo pensiero dov’era. Un cacciatore e un colpo, boom nella selva. Tu resti immobile, solo il tuo piede improvvisa una danza. Le mie mani si colorano di rosso, è freddo fuori e le nuvole coprono il sole, la tua mutandina resta al suo posto e la tua pancia si contrae in battere. Le parole che ho scritto per te si sono perse sui social, in buste chiuse di lettere spedite, indirizzi errati, messaggi Whatsapp, un blog irraggiungibile da dove sei tu. Ho tracciato a lungo il percorso dei tuoi viaggi, un gomitolo di linee mi ha ingarbugliato gli anni, i desideri. Dove sono io non lo so più, è una continua ricerca, un’avventura dietro alle tue finestre. Quando osservare è soltanto prendere freddo e malattia, bussare alla tua porta un’invadenza rara. Colpa del vino, colpa del dolore. Si trema qui fuori, si battono i denti. Quando anche gli animali troveranno nascondigli sicuri il cacciatore affamato farà fuoco sull’uomo che sono. Ti sveglierai allora?

Foto: © Natnada Marchal

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Col MacBook sulle gambe

Se ne stava sdraiato col MacBook sulle gambe, la luce dei pixel le persiane chiuse nell’ora che segue il pranzo della domenica. Lei nella sua camera rettangolare, il letto singolo, seduta gambe incrociate, il suo MacBook con la custodia in plastica rosa e l’adesivo “Metallo Inside”: il collettivo degli anni del liceo. Un anello al naso, un tatuaggio sulla coscia destra: indianina col turbante tutti i colori dell’arcobaleno. Lui le scriveva che fai. Lei rispondeva mi annoio. Ho comprato dei cappelli al negozio vintage, vorrei farti delle foto. Potrai, rispondeva lei. Poi silenzio. Un minuto, due, dieci. Che fai stasera? Mi perdo. Desideravano incontrarsi ma nessuno aveva il coraggio di dirlo. Al riparo della tastiera, nel tempo che le luci artificiali non sanno scandire, ognuno alle prese con la propria malinconia e i desideri non ancora avverati. Credo dovremmo vederci. Lo penso anch’io. Poi un’altro silenzio. Un emoticon. Lui se la face su, la fumò tutta smoccolando sul Mac, i polpastrelli neri. Fece partire un video sull’indipendenza della Catalogna, il sangue sui nasi feriti. Scrisse alla sua amica rivoltosa che a Torino urlava slogan tra le violenza di manifestanti e polizia. Sono così umana, gli aveva detto lei. Io penso tu sia un supereroe. Ma non posso volare, realista la ragazza. Potessimo farlo, si trovò a scrivere lui. Poi un altro emoticon, un altro silenzio. Le cosce calde, il pomeriggio da inventare. Un altro spliff.

Foto: © Raymond Meeks

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È pianto per le emozioni di X-Factor

C’è in questa impellenza, nei discorsi sulla noia e il desiderio di creare altri mondi, c’è in tutto questo il perché io ti scrivo. Né al Rodin di Parigi né al Munch di Oslo il pianto nevrotico per le emozioni di X-Factor, le lacrime che mi asciugo dopo le dirette. Nel riconoscerci umani le nostre debolezze, il desiderio di stringerci e sostituire alle parole la carne. Nei tuoi punti a capo, le virgole, le frasi di circostanza, il mio interpretare la sintassi e farle mimare il tuo corpo. Ti dico una frase può sostituire uno sguardo e affilata arrivare là dove il sentire crea vuoti. Mi dici assurdo, mi dici sei folle. Continuare a premere l’acceleratore, spingere il pensiero oltre i limiti, l’invadenza oltre il canone. Creare altre città, altri paesi, altri mari, con altre regole, altre morali, altri standard. Confondere il creato e il reale. Non c’è uva che si può pensare né il vino che avvampa la gola può prender forma d’aria, hai ragione. La terra rimane terra, l’immaginario immaginario. È la parola che sfugge a ogni forma di definizione, diventa strada, ponte, diventa fiume e teleferica. Collega più mondi e si fa presente, quando è sentita e poi scritta, viva, quando le labbra si muovono in pronuncia. Oltre agli occhi, alle mie dite magre, alle pose, la performance del dire non cela narcisismi né vezzi, ma sa farsi riconoscere quando è necessaria. Eruzione del cuore. In quella foto tu con lui.

Foto: © Martin Parr

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