Di David Foster Wallace non ho mai finito un romanzo, mai. Li ho cominciati tutti, davvero tutti, de La scopa del sistema sono arrivato a pagina 447, a circa settanta dalla fine, poi mi sono stufato, ho lasciato il libro accanto al letto e ci è rimasto mesi. Infinite Jest: mi sono fermato a pagina 40, ho letto stralci qua e là, conosco le trame, gli incastri e i personaggi. Riesco a parlarne con chiunque senza che si accorga delle mie lacune. Sta nella libreria di fianco ai vocabolari (Rocci e Devoto Oli per la precisione) e alle guide dei vini d’Italia e del mondo. Coi saggi è andata meglio, son poche pagine e la prosa è differente, ne ho finiti almeno 4, sì, 4, letti dalla prima all’ultima riga (le note no). Il tennis come esperienza religiosa l’ho regalato, mi ha anche dato lo spunto per scrivere qualche cartella a tema “Del Piero e la poesia”, ma pigrizia ha voluto che quell’assurdo progetto non prendesse mai forma – ma almeno il gol del 3-2 alla Fiorentina rimarrà per lungo tempo visibile su Youtube e non c’è bisogno che qualcuno lo racconti –. Settimana della moda, Milano, quel che mi ha sempre attratto di David, in verità, sono le bandane e la magliettone larghe, le braghe corte, i capelli lunghi, gli antidepressivi e quell’ironia che solo chi è consapevole delle imperfezioni del sé e del mondo riesce a usare. DAVID-FOSTER-WALLACE, tre parole che stanno bene in bocca e pure nelle canzoni de I cani. Oggi tutti a dire “È nato è nato!” come si fa a Natale col Salvatore. La realtà è che, al di là dei vezzi narcisi e dello sbandieramento del proprio essere curiosi, intellettuali, colti o soltanto dei cazzo di nerd da tastiera, noi sconfitti ci affezioniamo ai deboli che ce l’hanno fatta, che sono riusciti a salire sulle labbra di tutti e sono morti del loro talento e della loro fragilità. Il David, che funziona con me, infatti, è quello delle interviste e delle conversazioni con editor e scrittori, là lo capisco, là scatta qualcosa e siamo amici. Io della cultura non so che farmene, dico davvero, ho studiato a scuola, mille e più scuole, studio ancora adesso ma scrivo peggio di dieci anni fa e ora che ho trent’anni e passa so che posso leggere un romanzo in una notte, sette romanzi in tre giorni tra lavoro e palestra e poi rimanere imbambolato davanti a Netflix per settimane e non sfogliare manco una pagina. Io sono un debole, un qualunquista. Io sono quello che la curiosità la esprime scrivendo a sconosciuti sui social e aspettandomi di cogliere l’essenza delle vite degli altri. Pensino pure che io voglia portarli a letto, sto soltanto rubando un po’ del loro tempo e della loro esistenza. L’intimità delle lenzuola è per pochi. Io sono quello che quando si innamora fa una o più cazzate per farsi abbandonare o risultare stonato. Io sono quello che gli antidepressivi non li usa ma ha una voglia matta di ficcarseli in gola. Con l’alcol è un’altra storia, ma sono problemi miei. Viva DFW, romanziere ribelle, culo da McDonalds, professore che avrei desiderato avere, amico da chiamare alle quattro del mattino quando la notte è più buia e nessuno risponde mai.