C’è in questa impellenza, nei discorsi sulla noia e il desiderio di creare altri mondi, c’è in tutto questo il perché io ti scrivo. Né al Rodin di Parigi né al Munch di Oslo il pianto nevrotico per le emozioni di X-Factor, le lacrime che mi asciugo dopo le dirette. Nel riconoscerci umani le nostre debolezze, il desiderio di stringerci e sostituire alle parole la carne. Nei tuoi punti a capo, le virgole, le frasi di circostanza, il mio interpretare la sintassi e farle mimare il tuo corpo. Ti dico una frase può sostituire uno sguardo e affilata arrivare là dove il sentire crea vuoti. Mi dici assurdo, mi dici sei folle. Continuare a premere l’acceleratore, spingere il pensiero oltre i limiti, l’invadenza oltre il canone. Creare altre città, altri paesi, altri mari, con altre regole, altre morali, altri standard. Confondere il creato e il reale. Non c’è uva che si può pensare né il vino che avvampa la gola può prender forma d’aria, hai ragione. La terra rimane terra, l’immaginario immaginario. È la parola che sfugge a ogni forma di definizione, diventa strada, ponte, diventa fiume e teleferica. Collega più mondi e si fa presente, quando è sentita e poi scritta, viva, quando le labbra si muovono in pronuncia. Oltre agli occhi, alle mie dite magre, alle pose, la performance del dire non cela narcisismi né vezzi, ma sa farsi riconoscere quando è necessaria. Eruzione del cuore. In quella foto tu con lui.
Foto: © Martin Parr