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Mi conquista il rap degli ultimi giorni d’estate

Le dita gialle e il sigaro consumato di ieri sera per questa attesa che non si esaurisce. Nella tasca laterale delle mie braghe corte la scatola dei fiammiferi con l’icona della Madonna delle Guadalupe per accendermi in bocca le parole che voglio bruciare prima di parlarti, per non far cenere di quel che è stato in questo Stato che è tutto un falò e i libri da ardere sul comò. Mi conquista il rap degli ultimi giorni d’estate, le mani alzate e tutti i cori scemi che ci rivolgiamo di giorno. Guardo alle spiagge con la malinconia dell’inverno e prima o poi metterò anche io gli occhiali grandi e neri per questa congiuntivite che non lascia tregua agli sguardi nitidi, al cielo confuso delle città grandi nelle notti d’agosto. Sul tetto stanno incastrate le variazioni dei toni delle nostre voci, quando ti ho chiamato nel mezzo del pomeriggio e mi ha risposto la tua amica, quella fica con la banalità del che fai e la molestia dei toni bassi. Vorrei scambiarti con le figurine poco impegnative delle pin up degli anni duemila, i culi tondi e le bocce di plastica per i pesci rossi che fanno compagnia ai miei silenzi. Che squadra sceglierà Alessandro Del Piero? Che farà? Smetterà? Nelle notizie del calcio mercato trovo un motivo di resistenza. Gli ultimi dieci giorni del mese e la mia nuova partenza. I tuoi orecchini tondi e l’abbronzatura che non ti sta bene. Come i serpenti lasciamo per strada parti di noi di quella volta che pisciavo al lato dell’autostrada e mi sei venuta in mente. L’auto che accoglie le mie durezze e poi questo cellulare che non m’illumina mai. Hai voglia a immaginarmi il tuo volto sulle riviste nei miei week end post moderni fatti di bionde a rincorrere l’ebbrezza del dopo tramonto, pensare di meno e poi trovare un dio o anche un solo uomo tra le pagine di quel Vangelo che dimentichiamo fuori dai locali. Nella fessura tra le tue gambe vorrei nascondere un foglio piegato in quattro, il mio pensiero per il domani e poi cercarlo tra i tuoi sospiri che troppe parole ci sporcano e troppe ancora ci daranno colore. Quando avremmo bisogno soltanto di casa, di letto, dei nostri piedi vicini ed opposti. Di quando scalci forte con le mie dita che marchiano a fuoco i tuoi glutei per non farti andare lontano come lo sei adesso perché quando tornerai a casa ti guarderai allo specchio e vedrai sulla schiena le tracce del mio passaggio che se mi chiederai di frenare sarà soltanto perché io possa lasciare un altro segno.

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Ci sono isole ricoperte dal mare che aspettano le stagioni vuote per emergere.

I bastoncini dei ghiaccioli sdraiati sui tavoli in legno addormentano l’ansia per il tempo che ci scavalca. Sulle mie spalle nude i segni del sole si mischiano al ricordo delle magliette sudate. I tempi dell’oratorio estivo, svegliarsi il prima possibile e mettersi le scarpe, un Estathè e un biscotto e uscire sulla strada e poi capriole intorno a un pallone, le ginocchia sbucciate e le fontanelle per lavarsi i gomiti. E sul palmo delle mani conservo i segni della ghiaia appuntita dei campi da calcio improvvisati, coi marsupi che diventavano pali e l’immaginazione a cucine porte. Quando in un giorno solo facevi trenta gol, che a Del Piero gli è successo solo due o tre volte in tutta la carriera. E poi sedersi all’ombra delle piante grandi e non parlare di nulla e far la gara a chi è più forte che al braccio di ferro non volevo giocare perché perdevo sempre. E ora le estati scorrono come i torrenti e quando te ne accorgi è già troppo tardi. Quando Tyson saliva sul ring dava tutto nelle prime tre riprese e puntava al KO, e io, ormai lo sai, son fatto così, non ho mica tempo per le dodici riprese e le strategie dell’attesa degli avversari. I miei occhi stanchi per il mulinello sempre uguale del ventilatore e l’invadenza del www. E poi mi scrivi nel buio informe della notte milanese e mi dici che non ti chiamo mai anche se sai che non è vero. Dispongo pensieri invadenti sul letto e poi ci salto sopra, la finestra aperta, perché lo sciabordio ti raggiunga. Verranno a sussurrarti alle orecchie coi loro profumi dolci. Ti farai desiderare, sfiorare. E ti troverai ad ansimare sulle barche che sognano il mare e restano nei porti. Come in quel film con l’attore protagonista che aspira la s ti canterò le serenate di Jovanotti e mi dirai lascia perdere e poi non smettere. Ci sono isole ricoperte dal mare che aspettano le stagioni vuote per emergere. Ci pensi mai a quante stelle noi non vediamo? Ci pensi mai al profumo delle albe fuori dalla città? E alla mia pelle dopo una doccia? Prenderò sulle spalle le tue gambe magre, ti solleverò come nei film degli anni quaranta e ti sentirai padrona del cielo soltanto per qualche secondo, che non ci sono padroni lo sai, io te e i nostri guai, che poi se ti senti signora va a finire che mi annoi e ti annoi anche tu.

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Ci pensi mai che gli alberi si spogliano ai primi freddi?

Che ne sai tu della mia gioia, dei deserti di sale, della solitudine a cavallo di una moto e del rumore del mio respiro. Che ne sai tu di quando mi sdraio sulla schiena, apro le braccia, il vento tra i peli delle mie gambe e poi sulla punta del naso. I raggi del sole che si incastrano tra le palpebre e i prati erbosi del nord. Che ne sai tu dei canali di sfogo delle mie dita. Che ne sai del colore dell’ultimo pomeriggio di luglio, dei fiori in tripudio, degli inchini dei girasoli e degli aerei da perdere per un bacio d’addio. Che ne sai delle crepe sui miei capelli. Degli abbracci notturni al cuscino. Della nascita del mio neo sulla guancia sinistra. Dei punti di sutura della mia pelle, che ne sai? L’addio alle armi dei miei approcci invadenti. La cruda verità del tramonto dell’età prima. Dei pantaloni corti intrisi d’estate. Lascerò perdere le imminenze, gli scandali della buona coscienza e tutti i vetri rotti che porto tra le dita dei piedi. Le ferite del mio sentire e il desiderio della scaltrezza, per cavalcare i marosi dell’insipienza, le onde lunghe della non violenza e quella retorica di abbracci e sorrisi. Il bianco e nero mi ricorda i film degli anni sessanta e le pubblicità di Benetton col desiderio di scandalizzarci che è diventato abitudine, odiosa ricorrenza ai crocicchi di città. Chissà dove si nascondono i denti mancanti dei nostri vecchi. Chissà come sarà quando invecchieremo e sarai costretta ancora a inginocchiarti sul mio membro, dormirò sul tuo seno e tra le pieghe delle tue mani pianterò semi nuovi per il tempo a venire. Per le nostre gioventù accese e il nostro ardere. Perdiamo in foglie in vestiti leggeri, sul pavimento si accumulano in gocce le nostre interiorità. Ci pensi mai che gli alberi si spogliano ai primi freddi?

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Noi guard rail

E’ una questione di alfabeti lo sai, volevo tatuarmi le iniziali dell’esistenza, le ho sognate questa notte per perderle al risveglio tra il bianco degli occhi. Quando Calvino parlava della leggerezza non aveva certo in mente noi e i nostri capricci da adolescenti che non riusciamo a tracciare contorni, insicuri come i disegni dei bimbi. Hai presente quei soli tondi e i raggi tutt’intorno? Dovremmo prendere le luci della città, i lampioni, i semafori, le luci strobo delle discoteche, riunirle in simposio sotto le nostre case anonime, le radici del tempo perso. Fare della notte riposo, la rete aperta delle nostra braccia a stringere orizzonti, salire i gradini delle domande per guardare tutto dall’alto. E ci siamo ritrovati a spalancare le labbra in quell’oooh di sorpresa, le belle pagine dei libri scelti e quelle canzoni che ci sciolgono le guance. Nei tubi dell’acqua sgorgano ancora la nostre parole di ieri e non si perdono. Che dovrei essere concreto come sabbia, affittare aerei, sgusciare il tempo dalle noci, la testa china sui libri e i progetti indecifrabili di Celan mentre in Siria fanno fuoco sui giornalisti. Vorrei essere in viaggio, lo zaino leggero e il passo pesante, i lamenti lunghi degli asini al risveglio e gli incontri coi popoli, quando sei straniero sorgono domande e se ti apri al dialogo acquisti in bagaglio. E invece siamo qui tra i brunch impronunciabili che ci si incastrano in bocca, a elemosinare vita tra le masturbazioni intellettuali e il fatto è che ci dividono le scrivanie e non c’è un fuoco attorno al quale stringersi e sprigionare calore dai corpi, noi autoscontri, noi scivoli colorati, noi guard rail per gli sguardi indiscreti delle auto in sosta.

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Per ricordarci delle vite passate, dei tuoi occhiali grandi e delle camicie a quadri

Dietro le spalle a gettarmi i sassi dei valori scommessi. Per il fiorire delle mie parole profetiche e gli annunci di sventura degli oroscopi. I nostri telegiornali a colori e le foto in bianco e nero. Per ricordarci delle vite passate, dei tuoi occhiali grandi e delle camicie a quadri. Quando i teatri ci proponevano sempre la stessa zuppa e non c’erano coperte per scaldarci i cuori. E i nostri aliti caldi, le cioccolate amare che ci siamo rovesciati addosso per dar sapore ai pomeriggi d’inverno. E non venirmi a raccontare dei tuoi impegni, i parenti, i fratelli. Conserviamo le nostre interiorità in teche trasparenti per preservarci al futuro con la paura delle malattie, quell’intimità a forma di virus, le medicine dei nostri recinti e poi tutti i nostri egoismi che chiediamo scusa solo per sentirci più saggi. Mi spiegherai perché i giovani a Milano vestono sempre di nero. Sono andato e tornato dalle tue americhe troppe volte e mi sono ritrovato in mano un libro che non ho finito di leggere, quelle foto dai colori inverosimili e le parole belle che abbiamo sputato per terra, come i cinesi, come i cinesi, parliamo linguaggi incomprensibili e ci assomigliamo molto.  E in piazza del Carmine ci hanno dato degli invincibili perché non avevamo avversari ma soltanto debolezze. E sguardi leggeri che a furia di piume ci siamo fatti materassi per il lungo sonno delle nostre parole e i silenzi morti. Quando sogno soltanto la nudità dell’esistenza, un letto sfatto e fiori freschi sul tavolo, l’odore del caffè, un bignè.

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Sui piedistalli accenni passi di danza

Camminiamo a ritmo di dub tra le righe bianche, le cicche di sigaretta e ci manca il respiro quando ci guardiamo negli occhi. Le soglie delle nostre case a prendere polvere, i peli di barba nel lavandino e le tue gambe bianche tra le fotografie. E sui piedistalli accenni passi di danza. Sfogliamo i computer per leggere sempre la stessa pagina. Quando facevamo la guerra coi cuscini, ci rubavamo le figurine. Roberto Baggio nascosto nel portafoglio e la formazione ad alta voce tra le ringhiere, le radioline e l’odore della benzina nei parchi delle periferie dei nostri sguardi. I nostri cani sempre più piccoli i bilocali e gli affitti irraggiungibili. Abbiamo piantato il basilico e tu mi hai detto che è già secco che dovrei comprarmi un bagnoschiuma idratante per ammorbidirmi un po’. Mentre attraversiamo le strade dei cinema d’elite, ci riposiamo coi Pirati, le mondine dei nostri cuori sporchi che non c’è il mare al nord, non c’è la nebbia. I manifesti elettorali per le gare d’alzata di mano delle scuole medie. Quando tornavo a casa, la tavola apparecchiata e l’odore della tovaglia che tutto era disposto per la vita.

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Che sei partita per il sud

In casa mia non c’è nulla di tuo. Che sei partita per il sud. E ti hanno vista planare sul mare tra le bottiglie di plastica e le macchie dei nostri intestini. E non è ancora estate. La primavera avanza e lo smog ci dipinge la faccia. Che siamo indiani in scooter e per vederci brillare aspettiamo la notte le tue luci al fosforo per dimenticarci. Quelle parole a scatti nei vinili delle nostre voci scadute che non ci sono i giradischi e non ti sento e dove sei e cosa fai quanto mi dai. Che sei guarita e forse non lo sai. E sui mappamondi abbiamo tracciato le vie dei nostri desideri con la matita rossa. E Berlino è sempre più lontana. Che forse dovremmo soltanto affogarci la lingua in bocca e sederci sulle panchine di piazza Vetra e dietro agli alberi a scopare. Per gonfiare le ruote delle nostre bici rubate e parlare del cielo bianco di Milano e i papaveri tra le rotaie per deragliare in ritardi. E per rincorrerti comprerò le scarpe nuove e uscirò in pigiama per avvertire la notte.

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