L’aperitivo al bar, lo spazio neutrale per i nostri sguardi. Ci siamo detti è tardi, che gli anni ci pesano sulle spalle come le stellette dei militari e quanti morti avremo sulla coscienza? Che senza accorgercene ci siamo lasciati scappare il ciuf ciuf dei futuri.
Perdersi nei farò è l’immobilità concentrica della parola che decliniamo al condizionale con tutti gli avremmo, i dovremmo, i faremmo che ci penzolano dal soffitto che per evitarli ci trasformiamo in fotocellule. Le macchine fotografiche per dirci lo vedi, ci sono, ragiono e poi che altro vuoi? L’immagine è testimonianza ti ho detto, ma è il fare che diventa cronaca e sbagliare e disfare. E così parlavamo di Milano, degli Arci chiusi e delle nuove aperture, ci faranno suonare, ci faranno cantare, ci faranno ballare? Per le nostre aspirazioni abbiamo bisogno spazio e orizzonti, cadranno i grattacieli ti ho detto, e vedremo finalmente le sirene e impazziremo quando ci diranno che bastava turarsi le orecchie per evitare il frastuono e dare ascolto alle nostre fragili intimità.
Così mi hai detto Hey man, questa sera c’è gente in un posto. Ti ho detto embé, e poi perché? Non so, andiamo, vediamo, ascoltiamo hai da fare? Io no. Io nemmeno. Precari i nostri vuoti dell’esistenza, precari i nostri silenzi e gli affetti, precari noi e i nostri lavori artistici e quando ci verranno a dire che quel termine è snob li tatueremo tra le labbra come un urlo. Artisti noi che non neghiamo quello che siamo. Artisti noi che ci proviamo. Artisti noi che ci creiamo. Artisti noi tutti, mondo, abbiate il coraggio, abbiamo le forze, questa è la nostra utopia e parole dense, che se non osiamo finiamo con l’accontentarci.
Le sedie in cerchio e i modi gentili, le nostre divise così diverse e sciarpe e taccuini per gli immancabili occhiali tondi. Che c’era un luogo della mente, che si chiamava Macao, che era un museo in movimento, forza d’urto e aria nuova, sguardo libero per scavalcare orizzonti. Mi son disegnato un punto di domanda sulla mano: cos’è? Perché? Com’è? E tutte quelle domande che servono all’armonia. Vorrei, ma si può? E la parola occupazione come un macigno, così attiva che pare un invito. Andiamo, facciamo, occupiamo. Si occupa quel che è vuoto, i pieni non hanno bisogno di nutrimento. E gli occhi belli e i sopraccigli impegnati, parole nuove e un alfabeto da ribaltare, che quando si fa gruppo c’è un codice che è uguale al linguaggio dei più, ma nasconde intese e progetti impensabili. E allora a culo i però e le perplessità immobili. Andiamo, facciamo, occupiamo, la parola diventa azione ed ora siamo tanti, siamo scalini e usiamo le nostre spalle per raggiungere altezze, che siamo un gigante su un grattacielo. E ci domandiamo il perché e davanti alla musica rimaniamo immobili, rimandiamo il ballo al futuro che ora nei nostri corpi viaggiano veloci i ragionamenti. Per ogni più un però. Mi piace, alla grande, cioè.
Andiamo a Macao! Andiamo all’isola che c’è, di piano in piano, di parola in parola e poi sguardo aperto, mente leggera, timone saldo e la trasparenza dell’acqua. Che siamo un mare e prendiamo il largo sui grattacieli, che se non li pensi ostacoli e ci sali, sudi e fatichi, ma si rompe il velo e prendiamo il largo su orizzonti nuovi.