Con tutto il bene che ci attraversa senza strisce pedonali; che non serve chiedere il permesso qui, ci sono porte che si aprono senza avvisare e portoni inchiodati male, di quando abbandoniamo il dovere per la necessità.
Nelle cravatte lise sui bordi la quotidianità dei professionisti. I saluti dei vecchi e quei come va che ci dimentichiamo di ascoltare, che quando ti fanno un complimento non sai mai che replicare.
Quelle tue scarpe splendide e il piede appoggiato all’acceleratore. La musica dei Sigur Ros a far compagnia alle nostre coscienze.
Questo tempo che non ci abbandona e poi ci investe. Le mie speranze sconclusionate e poi le attese che mai si realizzano. Le promesse dei Proci dell’industria libraria e La Fiaschetteria da Nuvoli e le uova sode per asciugare l’ebbrezza non cheteranno il desiderio dei tuoi domani.
E dita lunghe e ginocchia consumate dai seggiolini da stadio.
Di quando sognavamo la California nei walkman e ci presentavamo ai concerti con le canotte NBA. Dei nostri cappelli buffi e delle maschere che indossiamo per aspettarci.
Qui è tutto disposto alla vita: gli accenti e le grida dai balconi, il tuo viso nascosto dai capelli e quegli occhi che non riescono a stare senza guardare attraverso obiettivi e dare nuovi colori alle cose.
Che ti dicevo dovremmo essere come i cinghiali, popolare i boschi e lasciar perdere le nostre tracce la notte. Delle tue migliaia di volte nei parchi dei divertimenti e delle corse a cavallo sul mare di Essaouira, quando credevamo a tutto quello che ci dicevano e un paio di mattoni erano la casa distrutta di un cantante e poi l’Otello di Orson Welles tra le case ebraiche.
Della tua camicia bianca e dei miei pantaloni neri, le nostre differenze e il mio neo sulla guancia sinistra, che intrecceremo le dita soltanto quando respireremo dello stesso cielo.
Foto: Mladen Karan, quadro.