Il destro, poi il sinistro.
Sono i tuoi piedi, quelli che ti eri dimenticata da tempo. Quelli che tenevi nelle scarpe la notte, pronti alla fuga. Ora invece sono là: distesi e nudi, sul tuo letto grande.
Non hai mai avuto davvero paura, pensavi soltanto a che fare, a trovare soluzioni concrete ai tuoi ideali di bellezza.
Nel megafono dei discorsi il tentativo di svecchiamento del politichese e quella retorica che strappa applausi. Così trascorrevi ore sui tetti non godendoti presenti di sguardi che abbracciano tetti e città; le utopie dense delle tue isole felici e quest’assenza di vento che impedisce partenze. Tu e i tuoi compagni diventavate voce sola e vi intonavate a coro per lo stadio dei traffici dei potenti.
La conquista di un luogo per dare casa ai vorrei. Cominciare dal luogo, non c’è altro modo per mettere fondamenta. Io che ti guardo da chilometri e chilometri di distanza, io che prendo treni e aerei come se fossero sigarette. Io che non sono presente e resto nell’aria, perché anche in assenza ci si può toccare, dicevi tu, ma non mi hai ancora convinto.
Esistono amicizie che riposano nel profondo, pronte a salvarti o a sparire. Il pensiero di sciami di farfalle in testa per questi pensieri sconclusionati e i giri di valzer della parola che finisce stanca a riposare su sedie di legno.
E ora cammini senza guardarti intorno, ora non fai attenzione a dove metti i piedi e non hai consigli da chiedere, né suggerimenti da dare. Ti guardi i piedi e dici che son fatti per l’alzata e non per queste passeggiate tra i metri quadri e i muri della casa dei tuoi genitori.
E dai uno sguardo ai siti internet che sbattono contro le correnti. Credi nella rete per pescare i pesci più grossi e poi ti perdi nel ritmo in battere di certi deejay d’oltremare. E quando hai voglia di fare l’amore ti neghi, che sei più forte tu delle velleità del tuo corpo. Come i mahatma e i Che, rinneghi te stessa per i progetti più grandi. E parli con le rondini proponendo rotte impensate per le migrazioni.
Mentre ancora si riempiono le piazze dei sostenitori del buoncostume. La seduzione governa il mondo, la seduzione. Che sia di corpo o parola. Che sia d’immagine o profumo.
C’è un senso di sconfitta nei quarantenni di oggi, a rimpiangere gli anni ottanta e i Pink Floyd. Si sono seduti sulla sedia e ora si chiedono il perché. E non lo vedi come fanno ad attirare l’attenzione? L’ironia dell’evidente e i manifesti dell’antiperbenismo, dell’antibuonismo. Eppure sono così colti, così sensibili, così belli, mio Dio, dico, perché? Perché anche voi adeguarvi al mondo?
L’idea di sopravvivenza delle isole greche e l’autosufficienza del coltivare miele e braccialetti in pelle di capra. Torniamo ai tuoi piedi e alle forme che spesso nascondi. Torniamo ai tuoi muri e ai pensieri che ci incolli ogni giorno. Tornerai sulla strada anche tu con sguardo bianco.
E mi metterai nella schiera dei vecchi, del mio pensiero di trentunenne e di questo vagabondare senza sosta per esercitare l’ascolto del sé.
Di quando ieri, all’entrata di un locale, mi hanno marchiato il braccio con la scritta “egoiste”. Delle mie docce lunghe per lavare via i continui sguardi allo specchio.
E poi lo vedi come va a finire? Parti col scrivere un racconto e finisci per parlare di te. Di me.
Quando ci dicono che la narrazione è tutto, noi non crediamoci.
Quando ci tireranno paranoie sulla memoria, noi non crediamoci.
Quando ti proporranno il cerchio magico e lo sguardo neutro, noi non crediamoci.
C’è ancora un sentire che ribalta montagne e divarica fiumi. Ci sono ancora cosce che si aprono per sostenere libri e idee che sfiorano le lenzuola per poi arrampicarsi ai lampadari.
Non c’è paura in questo nostro andare. Sono necessarie parole abusate e piangenti: bellezza e umiltà. Sono necessarie parole accusate e potenti: presunzione, coraggio.
Che esiste un egoismo che ha a che fare con la tenerezza, qualcosa che ancora non ti so spiegare, per questo ci sto scrivendo sopra un romanzo.
Aspettando una tavola apparecchiata.
Un io e te che non possiede e libera.
Foto: Yang Yongliang