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La danza delle farfalle e i pesci carango

Ti chiedi il perché delle parole in giorni come questo. Immagini bocche cucite con l’ago che trapassa la carne, il filo che si tende e le labbra ridotte a fastidio. Guardi il brufolo sulla tua spalla destra con meno attenzione e davanti allo specchio fissi i particolari col pensiero altrove: non hai coscienza del tutto.

Ci sono morti e tragedie che ti interrogano e per qualche momento ti fanno uscire da te, non sei più tu e tu soltanto, ma torni uomo tra gli uomini. L’orrore, la compassione e un timore che ti prende da dietro e ti fa saltare sul posto e urlare: ho paura della morte. Non passa giorno che non ci pensi, e se davanti al naufragio di nostra noncuranza eviti d’interrogarti hai stretto il cuore in sacchetti di plastica, il sottovuoto di chi per non soffrire si costruisce rifugi: chiamo baracca l’odio, tenda il cinismo, tetto la superbia del “lo sai, va così, sarà sempre peggio.”

Ti parlerò ora delle farfalle africane che al termine della stagione delle piogge aspettano sui fiori che le ali si asciughino, poi prendono il volo. E’ il tempo dell’amore, cercare un simile e condividere il sole presente. Troppi alberi, troppe foglie, troppi arbusti, cespugli: non c’è lo spazio per la bella danza. Così via a risalire il fiume, chilometri e chilometri di volo per arrivare in alto, quando la vegetazione si fa rara, sotto alle cime della montagna. Il cielo aperto e lo spazio per la piroetta, chi vola più in alto, chi vola più in fretta. La meraviglia dei colori e quadri in divenire, l’amore che sboccia nel movimento, l’accoppiamento che è un meravigliarsi del volo e poi amarsi senza toccare terra. Dopo l’amore tornare in foresta. Lasciare di nuovo al cielo il suo spazio, carichi di prole per l’anno a venire, ricchi di bellezza. Nessun predatore ha mai pensato di guastare la danza, nessuna tempesta, mai nessuna nuvola.

Nei mari d’Africa poi la mole grande del pesce carango che vive in solitaria e caccia il pesce più piccolo. Poi viene la stagione meno pescosa e raggiunge i suoi simili, si ritrovano in branco, abbandonano il mare, risalgono la corrente del fiume e arriva un momento che si fanno danza: compongono un cerchio e via in girotondo. Quando lasci la fila indiana per concederti il tondo scopri che ti precedeva e chi ti seguiva, li guardi e nel volto lasci dietro le spalle la solitudine. Così il carango e la magia del nonsense del rito.

E allora smettere di pensare le relazioni come un possesso e appiccicare il fine a qualsiasi forma di intimità: l’ho scritto sulle note dell’Iphone quando in metropolitana si consumava il balletto degli sguardi tra gli sconosciuti. Che se ci avviciniamo è perché esistono alfabeti che non ricordiamo, ma possediamo per sensibilità e ferita, per meraviglia e vissuto. Dei nostri contorni che non sono infanti da riempire per intero. Nel metro di vita nostra già diamo i numeri, quanto hai vissuto, quanto ancora ti manca, dai non pensarci, lasciati andare, c’è una corrente da risalire, una danza ancora da ballare.

Foto: dalla rete.

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Per Sonia

Ci manca da ridere. Regalarti la nebbia per nasconderci. Per proteggerti dai pali della luce. Di quella volta che abbiamo salutato l’alba sdraiati sul naviglio. Le lavandaie non stendono più il bucato e scolano bottiglie. E nei vicoli puoi trovarci chi fa il ricambio al fegato e torna con la faccia sollevata per guardare tutti negli occhi. Quando rompo gli specchi per non scivolarmi dentro. Che quando fumi sul balconcino alla francese mi sembri un quadro e vorrei metterti all’asta. E la chitarra dovresti suonarla nuda perché è più coreografico. E mentre lavavo i piatti ci hanno detto che lei aveva la nostra età e saliva le scale impervie dei palchi. Che stava incollando volantini che questo lavoro te lo cuci addosso e ti rimane per sempre. Che avrebbe debuttato e ricevuto gli applausi. E le strisce pedonali ci salutano sempre dal basso. E non ci aspettano. Quelle auto stanche per le malattie del nostro tempo. Coi nostri cuori che si sono rivoltati dentro e i pesci rossi hanno smesso di respirare. E non avevamo la forza di urlare. Che quella passione pesa dentro come un’incudine. Coi piedi per terra. Col piombo del potere attaccato alle caviglie e le manette dell’utile per non scrivere i nostri progetti. La bella gioventù la bella gioventù la bella gioventù. E non parlateci dei vecchi tempi. Che non vogliamo dimenticare e il vostro vuoto non ci spaventa. Che lo faremo per noi, che lo faremo per lei. Ci incateneremo ai semafori con gli occhi rossi e piangeremo lacrime che inonderanno Milano e tutta l’Italia si mobiliterà. E passeranno quaranta giorni e poi arriverà l’arca e scenderanno a coppie le nostre utopie. E prima o poi ci rincontreremo e abiteremo di nuovo la terra. Coltiveremo gli orti della passione col sangue innocente. E non aspetteremo le colombe al petrolio e i ramoscelli in plexiglass. La bella gioventù la bella gioventù la bella gioventù. E non parlateci dei vecchi tempi. Che guarderemo il cielo, che guarderemo il cielo.

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