E con i libri la conoscenza del frattempo mentre per la consapevolezza ricerchiamo l’esperienza. I calli sulle dita e le cicatrici aperte dei nostri occhi, per gli sguardi dimenticati a cavallo delle tue spalle, gli sforzi per sorprenderti e il tuo disinteresse per gli affari grandi. E mi parlavi dell’azzurro del cielo e segni e sorrisi sulle nostra lenzuola bianche come le parole che vorrei scrivere sulle piastrelle dei bagni dei bar e poi perdo il coraggio e abbandono profumi e fantasie dopo gli sforzi e i pantaloni calati. L’essere sensibile spazzato via con un colpo d’acqua, come i calcoli renali e la mia dipendenza dal bicchiere. Non ho mai fatto attenzione ai lampadari, ma alla forma delle posate e alla cortesia del gesto. L’apertura delle braccia e la posizione del busto per l’accoglienza del diverso. Quando mi parli del teatro mi citi i novantenni e così chiudo gli occhi, per le parole stereotipate: i tuoi bellezza, giustizia e gli occhi del cuore. Che mi suggerisci adesso? Guardo l’alba dal tetto, fumo sigari con la mano destra e li accendo coi cerini che ti ho regalato per dar noia ai miei polmoni, la nebbia a Milano manca da troppo tempo e per non guardare lontano costruiamo ancora grattacieli, i progetti degli architetti della new economy e i laureati alla Bocconi che lanciano il cappello. Le gote rosse dei padri e i vestiti inguardabili delle madri, la ciccia che pende dal braccio e i nei che hanno smesso di affascinare. Quando i parchi servivano per bucarsi e poi lasciarsi andare al sonno, ai baci rubati del sabato pomeriggio e alle mattinate senza scopo degli studenti, si scontrano ora tramonti perdibili e i tuoi occhiali grandi non servono più. Tutto questo vuoto lo riempiremo con un punto, uno soltanto, uno qualunque. La ricerca vana del girovagare dei carillon e le fotografie delle tue ferie d’agosto. Il costume alla moda e le frasi scritte sui muri in un’altra lingua suonano meglio e val la pena di ricordarle. Ama mi amorcito. Te quiero e poi i cuori delle bombolette spray e fiamma sulla maglietta del top player che cerca il denaro per far fruttare il talento dei piedi. Non ci preoccupano più le polveri sottili, i denti neri degli angoli della strada e le costole dei tram che disegnano il cemento. Ci siamo detti che senso ha tutto questo silenzio che ci stiamo ricamando addosso? Vorrei chiamarti Penelope e poi correrti dietro come fanno le antilopi. Per quei ritorni che non mi aspetto e le parole che disegno su una carta che non c’è, che polemizzo col passato e per le correzioni lascio la matita rossa ai bimbi. Se tu ci sei fammi toc toc, pum pum, il suono onomatopeico dei tuoi respiri, che se ti sento dentro è perché sono più debole, molle come i budini che non sai cucinare. Se apro la bocca posso parlarti di prospettive e poi farti entrare. Contro al respiro, i denti bianchi, lo schiocco della mia lingua e la campanella delle tonsille. Nei miei ventricoli fino a giù, quando se ti inginocchi non è per succhiarmi via vita, ma soltanto per ascoltarmi. Che parlo piano e non è ancora notte.
Foto: Marilyn Monroe and Arthur Miller, Beverly Hills, California 1960
Photo editing: Alessandra Tecla Gerevini
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