Per gli allontanamenti da me i pensieri riversi in shanghai e i volti annegati delle dimenticanze. E gocce tra i capelli sudati, le cascate giovani ad accarezzarci il petto e poi scendere nell’incavo delle mie cosce. Avremmo bisogno di dar aria al pelo del pube e prenderci una rivincita sul caldo d’agosto. Di quelle notti insonni e il cellulare in mano, il sesso ricamato sulle nostre lenzuola e le iniziali che vorrei urlare e invece tengo sulle camicie che dormono nell’armadio. E hai voglia a parlarmi delle nostre amicizie in comune, delle trasmissioni deludenti delle serate estive e dei preliminari di Champions League. Quando ti spiegavo del valore dei goal fuoricasa e tutti i tuoi dubbi sull’importanza dei nostri respiri e non c’è momento di questa estate che val la pena di ricordare. Così giravo la manopola sulla tua schiena e mi aiutavo col dito per farti uscire da te, e soffocavi nell’estasi dei mezzi toni, l’urlo enfatico per questo sudore desiderato e le nostra labbra bagnate, l’unione dei nostri linguaggi inizia dalla pelle mi hai detto. E ti leggevo le pagine oblique del mio romanzo, la mia voce come una carezza per la distesa delle tue palpebre. E quando si illuminava il display del cellulare ti chiedevo chi è e rispondevi che non era importante. Bruciamo anche noi mentre nella penisola strofinano le mani i potenti e fanno fumo, i segnali indiani e la tribù dei piedi neri, le calze appese sui fili della luce per sperare in qualche stella cadente, viviamo di speranze e non sappiamo raccoglierle. E nebbia sulle nostre previsioni del tempo, gli occhiali rotti dei metereologi e i meeting sul litorale per altre due iniziali puntante per la parzialità delle associazioni cattoliche e il loro sguardo appeso alle balconate dei poteri forti. Gli sfoghi di Antonio Conte i nostri passatempi dell’una del pomeriggio sulle reti Mediaset, per sostenere le interviste di Uno Mattina consumo i fornelli. Nelle parole crociate tracciate dalla mia nonna i capelli bianchi e l’esperienza delle stagioni, ho trovato il tuo nome e ancora non sei famosa. Vuoi dirmi che ce ne facciamo delle vetrine quando non abbiamo nulla da mostrare? Faremo la fine delle veline, i culi in offerta che aspettano il tempo dei saldi e le espressioni sceme di Ezio Greggio, il nuovo teatro è quello delle sagre di fine estate a nulla servono gli stabili e le loro maschere in giacca e cravatta. La retorica dello show che fa la voce grossa e i nomi piccoli per la necessità dell’esprimersi. Nei capannoni del centro Italia si preparano pasti e si gioca ancora alle carte, si mescolano le voci dei bimbi e per la notte son nenia e canzone i racconti dei vecchi. Perdere tutto per non guadagnare nulla. Perdere tutto per riacquistare storia e smascherare le debolezze della burocrazia, le litanie delle conferenze stampa e il battito sempre uguale dei polsi degli altri. Quando ti sento non riesco a parlare, lo scioglimento dei ghiacciai della mia debolezza e i rivoli di sangue dei tempi dell’adolescenza. Non sei ricordo e nemmeno presente. Non sei meteora e nemmeno sole. Nè luna, né stella. Ma cielo. Per tutti gli sguardi fuori dalla porta di casa, oltre il cemento, il legno, le tegole, oltre i miei capelli corti e il fumo dei nostri mezzi di trasporto, oltre me, sei tu. Sei cielo.
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