Mi sono scoperto a farti dei disegni. Non sono mai stato capace di dare contorni alle cose. Mi venivano bene il cielo e il mare perché non li puoi circondare e per i contorni basta tracciare una linea dritta come quando si muore mi hai detto. Che diventeremo orizzonti io e te. Mi scrivi frasi lunghe una riga e questo è tutto e io che mi lancio in ipotesi mistiche sul linguaggio dei segni. E non lo so perché proprio te. Era notte e correvo con la lingua infilzata tra i denti, il bosco buio delle mie voglie, le spalle lussate a furia di prendere dentro la corteccia degli alberi. Appeso ai rami di un acero c’è il mio cappello. Erano scese anche le nuvole per confondermi, respiravo la nebbia dei miei desideri il fascino poetico dell’irraggiungibile. Quando ho detto no alla banalità degli incontri rapaci e mi sono ritrovato solo: la vista incrinata dai parvenu della Milano dabbene, quei cocktail annacquati, la superficie del non pensato con le cannucce per andare in profondità, per non sporcarsi le mani. Con la coscienza appesa alla M della metropolitana di via Moscova facevo luce sul mio passato. Le macchie indelebili degli schizzi sulle lenzuola. Verranno le fate a salvarmi. Una chioma bionda, lo sguardo perso tra i sampietrini di corso Garibaldi. “Prendile la mano, prendile la mano.” Il sussurro dei lampioni a tingermi il viso di rosso. Salvami, fata d’oro, salvami. E ridono i tuoi amici elfi, si fanno beffe delle mie invadenze, rimbalzano sulla schiena per intimorirmi. Non ti è servito indicare e ho voltato lo sguardo. Se il giallo illumina il nero risplende. La chioma lunga a ripararle il viso, lo zigomo schietto, le labbra strette. Quali parole scegliere ora? Come ti chiami è togliere il velo. Che basta un nome ed io lo so e per questo ne invento sempre di nuovi, che il vero viene poi, nell’intimità degli occhi, nello spazio fatato del caso. La mezzanotte col rintocco dei clacson. Poi la tua fuga, le mie rincorse. Che non disegnavo allora, che siamo mare, che siamo cielo, che basta una riga e possiamo toccarci.