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Scomparire

L’ho fatta finita con le medicine, l’ho fatta finita da un po’. Tutto è natura e non è il caso di ricorrere alla chimica, alla sintesi senz’anima delle particelle.

Mi rigiravo nel letto, la canottiera bagnata dai sudori freddi. I peli delle gambe a far guerriglie al lenzuolo e nessuna voglia di aprire gli occhi. Coi polpastrelli disegnavo cerchietti su federe blu, appoggiare la testa al cuscino ti fa perdere coscienza dei contorni.

Sento bussare alla finestra, colpi leggeri ai quali mai prima d’ora avevo fatto caso. Provo a scollare le palpebre, ci riesco con sforzo. Una mosca, un’altra, una ancora: fuori dalla finestra a chiedermi il permesso d’entrare.

“Sono sceme le mosche.” Penso guardandone una che prova a sfondare l’angolo del vetro producendosi in un brusio discontinuo. “Fuori o dentro non cambia nulla, sai? Forse farà un po’ più caldo, forse, ma non c’è merda qui, niente da mangiare, siamo uomini progrediti e abbiamo inventato lo sciacquone.”

Lei non risponde e continua ad affannarsi. Le altre due si posano sul vetro per qualche secondo, poi riprendono il volo, si avvicinano, si allontanano, poi allungano senza sforzo le zampe posteriori e lisciano le alucce trasparenti. Decido di non aprire la finestra, il brusio scompare e la terza mosca giace supina, le zampe senza vita allungate verso il cielo. Noto il corpo peloso, gli occhi rossastri ed enormi in relazione al resto del corpo. “Non posso lasciarla là. Non è bello, la vedranno tutti. Io mi vergognerei a starmene morto in mezzo a una piazza. Non sono certo un dittatore e nemmeno lei lo è stata, troppo sciocca e testarda nel cercare una strada dove una strada non c’è.”

Apro la finestra, allungo la manica del maglione fino a ricoprirmi le dita e provo ad afferrarla, la lana rende i polpastrelli insensibili, non ho tatto e, quando credo di aver raccolto il corpicino nero, avvicino l’indice e il medio al pollice, scopro il fallimento: l’insetto è sempre nella stessa posizione e tra le mie dita soltanto tessuto. Provo più volte, prima con attenzione, poi con foga. Con l’altra mano allontano le altre due mosche, mi ero dimenticato del loro desiderio di entrare, ora sono felici e si rincorrono in danze intorno alla mia testa. Una volta, una ancora, pollice, indice, medio e lavoro di polso. L’insetto rimane dov’è, senza vita. Non mi sono accorto ma credo di averlo ferito. Si può chiamare ferito un già morto? Il maglione è sporco di un liquido giallastro.

“Perdonami, non sono così bravo quando si tratta di seppellire qualcuno. Potreste farlo voi.” Dico agli altri due mostrini. Quelli non rispondono, si posano una sopra l’altra e i corpi pulsano. Allungo le dita nude e prendo la mosca per una zampa, la poso sul palmo della mano e la guardo:

“Certo che sei brutta.”

“Ti credi bello, tu?”

“Sono più bello di te, non credi?”

“Sono una mosca, credi che possa pensare a un uomo in termini estetici?”

“Io sono un uomo e credo tu sia brutta, uno degli animali più brutti.”

“Voi uomini ragionate così.”

“Tu sei morta, perché puoi parlare?”

“Noi animali parliamo da morti.”

“Non l’avevo mai pensato possibile. E’ innaturale.”

“Chi ti ha insegnato cosa è naturale e cosa no?”

“Beh, è sempre stato così.”

“Parliamo dopo aver vissuto, prima non serve a nulla. Ed anche ora, ti confesso, non ha senso per me dire niente, voglio finire nella dimenticanza, ancora pochi minuti e scomparirò.”

“Scomparirai?”

“Hai mai visto una mosca morta sulla strada? Noi scompariamo, siamo così piccole che non abbiamo il tempo per decomporci. Voi uomini, invece, voi tenete così tanto alla vita e pensate tutto il giorno alla terra e a quella che chiamate bellezza, per questo ci mettete così tanto a scomparire, e appesantite la terra.”

“Credi che è per questo che non possiamo volare?”

“C’è stato un tempo in cui voi uomini volavate, leggeri e senza pensieri e facevate a gara per chi volava più in alto, vicino al sole che tutto scalda, poi… non ho voglia di spiegarti tutto, devo prepararmi a scomparire.”

“Posso aiutarti?”

“No.”

Non sento più nessun brusio, guardo le altre due mosche uscire dalla finestra. Ritorno a guardare il palmo della mia mano destra, la mosca non c’è più. Soltanto un’ala, sola e trasparente. Mi avvicino alla finestra, porto la mano vicino alla bocca, apro le dita e soffio. L’ala scompare. Chiudo le mani a pugno e resto fermo con lo sguardo rivolto alla strada. Il mio riflesso sul vetro: “Non sono poi così male.”

Mi sistemo i capelli, senza pensarci mi lascio cadere sul letto. Alzo le braccia al cielo, alzo le gambe: “E’ una posizione così scomoda per morire.”.

Foto: dalla rete.

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Dietro queste mura

Sembra non esserci un altro muro dietro queste mura. Questo è importante. Significa che se oltrepasso la soglia non avrò altre mura intorno, soltanto spazio vuoto e libertà di passi.

Così ti chiedevo di portarmi a guardare l’orizzonte, ti fermavi a pensare e non dicevi nulla. Io ti seguivo e stavi sempre un passo avanti come chi si prende la responsabilità di un insegnamento.

Era notte, non avevo l’orologio e il tuo andare troppo svelto per prendere il cellulare dalla tasca. Tra gli ubriachi di Porta Venezia e le insegne illuminate anche la notte, il rumore dei tuoi passi come un metronomo su cui regolare il respiro. E ti guardavo le gambe e mi beavo delle tue imperfezioni. L’odore dei kebab arrosto e le lingue straniere. Mi prendevi la mano per invitarmi ad allungare il passo e superavamo i tralicci del tram giù in fondo a via Porpora. L’ultima corsa della metropolitana e gli sguardi a riposarsi sull’asfalto. Le borse tenute strette e il nostro slalom speciale tra gli ultimi avventori del buio.

Ti fermavi davanti a un muro grigio, accarezzavi lentamente la superficie irregolare del cemento e indugiavi sullo spray nero spruzzato da qualche adolescente; e senza voltarti dicevi noi siamo così, una scritta indistinta sotto il cielo grigio. Poi ti arrampicavi sul muro: i tuoi sforzi ostinati e i tuoi fallimenti ripetuti. Così ti offrivo le spalle, facevi forza sugli avambracci, spingevi con le gambe e raggiungevi la cima. Seduta con le gambe a penzoloni guardavi davanti a te le scritte luminose che annunciavano il ritardo dei treni. Per me fu semplice raggiungerti, l’esercizio di tutta la mia adolescenza: saltare le recinzioni per recuperare il pallone. Sei più importante di un SuperTele, ti dicevo, e un poco più pesante. Ti stringevo le mani e tu le ritiravi. Giocavo a fare dei riccioli coi miei capelli e guardavo nel vuoto anche io. Perché siamo qui? I treni la notte non passano e non abbiamo comprato nemmeno una birra per goderci la rappresentazione di questo vuoto. Una birra, mi facevi il verso, hai sempre bisogno di qualcosa da fare altrimenti ti annoi, sarà per questo che dici sempre che vuoi smettere di bere, di fumare, di scopare, per ridarti la possibilità del non fare nulla e cambiare la velocità dei tuoi presenti. Mi hai portato qui di corsa, ti dicevo io. Non potevo fare altrimenti, dicevi tu, lo spettacolo è già iniziato, tra poco pioverà e tutto diventerà evanescente. Quando piove scompaiono i significati è per questo che riflettiamo di più.

Mi giro per baciarti e non ci sei più, chissà dove sei. Non mi viene da piangere da giorni. Passa veloce un treno e lo spostamento d’aria mi fa perdere l’equilibrio. Cado all’indietro, il riflesso del mettere le mani davanti al volto. Soltanto qualche graffio e striature nere tra le dita. Cerco una panchina, la trovo, è verde, le assi di legno consumate e un tappeto di cicche di sigaretta.

Ti siedi di fianco a me, mi dici: non cercarmi, lo sai che io vivo lontana. Sei partita senza salutarmi, ti dico io. I saluti non servono a niente, mi dici tu, nessuno se li ricorda i saluti. Ho ancora il tuo libro, hai sottolineato delle pagine, l’ho scoperto soltanto sfogliandolo, ho deciso di leggerlo quando hai cominciato a mancarmi. Io sono qui, mi dici tu, ci sarò sempre.

Perché non ti fai abbracciare? Ti chiedo io.

Perché non sono di carne.

Ma riesco a vederti.

Io non esisto, lo sai.

Riesco a vederti.

Lo so.

Foto: Susan Meiselas.

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