Te ne vai nel mondo in camicia azzurra e jeans, il taglio dei capelli scolpito dal tempo si è fatto moderno, sei presente nel tuo passo all’apparenza sicuro, sensibilità a sera e sguardo troppo ampio per dedicare l’attenzione che desideri a tutto quel che si fa accorgere. E primavere e inverni, ricordi a saltello dei tuoi trent’anni, le corse fino a perdere il fiato nei prati verdi di Brusson, magliettone bianche e ginocchia sempre sbucciate. Di quando sei diventato altissimo e nemmeno te ne sei accorto, le tue caviglie fragili, la specialità del tiro libero perché quando tutti si aspettano qualcosa tu non manchi mai. Il Brasile, poi l’Africa, la porta di quel monastero che mi hai aperto tu soltanto con la gioia degli occhi e racconti di tavola e ricercata semplicità e accenti emiliani. E così, liberati dal peso di altari e cattedre, liberi e nuovi alla vita, un’altro passo ancora, e dietro a tutti gli angoli il nostro tentativo imperfetto e utopico di comprendere il presente e l’uomo e così l’eterno. Tu, facile all’emozione, facile al pianto, tu, capace di attenzioni ad altri sconosciute, folle del vino, ubriaco d’andare. Fai dello spazio nuovo che ti è donato il tuo eremo mai chiuso, dell’accoglienza siano esperte le tue mani grandi, e tavola sempre in ordine e mura bianche per dar respiro agli occhi. Nella mia testa i tentativi dello stare in disparte, farmi rifugio, pronto al bisogno, mai invadente. Dalle mie labbra senza governo né freno, spesso troppa libertà, perdonerai. Incapace io alla menzogna, ti basta guardarmi, tu sai dove sono, chi sono, che penso. Ti basta abbracciarmi, e tu sai dove il mio respiro giace. Quasi mai presente io, spesso lontano, incapace del qui, dell’ora, ma capace d’amore, di sguardo, di voce. Null’altro. Felice sia questo tuo andare, sempre più libero, sempre più tu.
Foto: © Bernard Faucon