Milioni di mosche e danze rituali per invocare la pioggia. Non indosso una camicia da giorni e mi si è bloccata la schiena, la ginnastica del risveglio e la finestra spalancata sul presente di questi giorni inutili trascorsi in provincia. Immobilizzato tra lenzuola colorate e mutande firmate schiaccio il tempo come mandorla chiara e svaligio frigoriferi vuoti.
Vorrei ancora scriverti mille e più lettere, ma non avrebbe senso. Vorrei disegnarti un mare calmo e correnti fredde che si infilano sotto al tuo costume.
Quando ti sorprendi in Oh di stupore e dimentichi di far annegare l’ancora e prendi fiato e dici tutto quello che ho non mi basta più e così sposti la sabbia dalle tue spalle e prendi la via più breve per arrivare da me e farti guardare. Non sarebbero necessarie parole se soltanto ti facessi presente e non ti vergognassi per la vita larga.
Non avresti bisogno di dirmi, scusami, sono un po’ stanca e nemmeno di specchiarti nelle vetrine dei negozi per controllare la forma dei tuoi capelli e il rossore delle tue guance.
Ci sono così pochi porticati a Milano che per proteggerti vorrei portarti a Torino e dirti ci sono strade che non finiscono mai. Nei rossi di Bologna le nostra battaglie durate una notte e tutte le ansie che sistemiamo sul comodino prima di prendere sonno. Sto leggendo ancora Kerouac, puoi lanciarmi insulti dall’alto dei tuoi giovani anni, ma non sopporto le lunghe descrizioni dei russi e le frasi a effetto dei nuovi Enrico Brizzi della letteratura italiana, che lui sì che è uno forte anche se l’han messo in un angolo catalogato come giovanilista. Ed ora lo trovi lungo le strade dei pellegrinaggi, negli scarponi che indossavo a vent’anni quando mi chiedevo il perché di tutti i miei egoismi e desideravo una vita volontaria senza conoscermi affatto.
Evviva l’Emilia e i figli degli anni ottanta. E abbasso i settanta, i quarantenni che fanno i professori a lettere e le letture di formazione.
E per tenermi aggiornato ho una collezione di insegne e cartelli stradali, sono soltanto foto fatte con l’I-phone, il contatto con la contemporaneità e il palazzi vuoti dell’est.
Nei centri sociali di Berlino quei muri arruffati di scritte e il disordine del nostro presente. Per chiarirci le idee occorre il bianco e l’architettura nuova dei nostri spazi intimi. Che siamo quel che guardiamo e nell’albicocca del tuo sedere vi sono il nocciolo e il seme delle nostre speranze. Così un tempo imitavo la voce del Tenente Lo Russo e sulle coste del Mediterraneo recitavo parole senza forza: “Chi vive sperando, muore cagando.” Ora arruolo le prime ore del giorno, il tempo di un caffè per guardare il sole che scavalca le imposte.
E ogni volta che ti scrivo mi trovo banale e inutile, così leggero che non puoi dedicarmi nemmeno un soffio, figurati uno sguardo. E non so se così facendo ci si ruba intimità o ce le si regala, quello che so è che penso troppo e sul pavimento ci sono pagine di un romanzo che chiede di essere scritto.
Foto: Vivian Maier
forse si dovrebbero riprendere in mano quelle pagine…
credo di sì.