La fontana della mia fronte e foglie nuove in capelli per questo luglio caldissimo. I ricordi dell’adolescenza e le turiste straniere alle giornate mondiali della gioventù. Il calcio mercato e le prime amichevoli dell’anno. Il numero 10 è palla a girare sul secondo palo, esultanza a lingua fuori e tocco originale. Non cerco un risultato, un finale e nemmeno una storia, mi esalta il beat, la suprema stella Vega che trasforma la noia in fascino e la banalità in canto.
Con l’impegno politico affondato nelle fontane e questo parlamento prostrato al gossip, i neonati blog dalle cosce nude e l’ironia tagliente che tutto è tranne sapienza.
Non ho mai amato ridere, la passerella e il lusso, ma compagnie, canti, vino e poi il finire degli eventi e fissare la tavola da sparecchiare, le impronte delle labbra sui bicchieri e non rimandare l’ordine al domani.
Mentre mi parli della crisi dell’industria musicale cresce il disimpegno e tutti i concerti estivi che fanno esultare il corpo. Qualcuno si guarda intorno in cerca di uno sguardo d’intesa, di una spalla nuda.
Tu che ti muovi lontano dal Gange e ti bagni soltanto in sorgenti. E preferisci il guardare al farti guardare, sarà per questo che subisco il fascino anarchico di chi sta dietro all’obiettivo e scatta e lascio il narcisismo sui palchi per poi sognarlo di notte.
E dai primordi le maledizioni sul fascino del diverso, l’irrazionale curiosità dei lati oscuri, dei punti neri su schiene bianchissime. Chiameremo noi maturità accettare la debolezza e propositi esigenti per i giorni a venire. Ho cominciato a fumare a trent’anni, smetterò in fretta. Chiamami se vuoi codardo, io che il vizio lo sfioro e faccio slalom tra i pali stretti della notte.
Come vorrei farmi silenzio e smettere di scrivere fin quando tu verrai a cercarmi. Morirei solo, vene nere d’inchiostro e letture interrotte.
E il no come vessillo, l’arcobaleno delle elezioni cilene e il rifiuto di Beethoven all’inchino davanti alla famiglia imperiale, dei canti di Schubert e dell’incomprensibilità del gregoriano.
Di chi è arrivato troppo avanti per poter tornare e di coloro che inseguono e ci vorrà tempo perché possano avvistarlo e magari capirlo e magari stringerlo o sedersi con lui, offrirgli uno sguardo e poi dirgli: la solitudine è come l’acqua del mare. Prende forma con te, colore col cielo, senso se l’attraversi, e poi evapora piano se l’annaffi di sole.
Foto: Giulio Di Sturco