I commenti non sono richiesti direte voi. Ne hanno parlato già in tanti.
Cerco i rami più resistenti per appendere l’altalena e spingermi con le gambe e togliere i piedi da terra per prendere il volo. Non ci sono alberi qui.
Poi sopra un palco, davanti a un microfono, fuori dalla camicetta bianca, al posto dei tuoi seni acerbi ci trovo le parole del ministro Fornero. Che i giovani tutti cercano un lavoro e che non devono essere troppo choosy, come dicono gli inglesi. Quello stranierismo da rotocalco e la gestualità delle mani per il vuoto pneumatico della coscienza. Ogni parola ha un peso, ogni discorso un altoparlante. Perché, ripeto perché, why se è più comprensibile, perché non il pensiero prima della parola? E poi perché l’inglese? Quale sapienza è nascosta dietro il suono molle dell’aggettivo choosy? E l’italiano dove è andato a finire? Puoi dire tutto e niente servendoti delle lingue altrui e perdi della verità della madrelingua. Il modello è al di là del mare e il resto soltanto un paesaggio mediterraneo da contemplare: le vacanze in Sardegna, il vino buono e le anticherie di sua maestà l’Italia andata della storia.
Le preoccupazioni delle mie nonne: troverai un lavoro sicuro, una casa, un’amata?
Gli insegnamenti del passato e il grido dei vetturini. E merda fuori dai teatri. E abiti lunghi, rose gialle con la balera e le processioni infinite per il santo e andare ben vestiti dal padre della sposa per chiederle la mano.
La filautìa dell’oggi e lo scoglio grande della parola futuro.
Una casa precaria, un lavoro precario, un amore precario. Abbiamo lasciato le sicurezze in naftalina per riprenderle un giorno o lasciarle ai desideri dei tarli.
La clandestinità del nostro pensiero ridotto a lamento sui blog fatti di moda e sciocchezze. Ci inventiamo les mots du jour per ricevere un like sulla bacheca di facebook, il surrogato di un bacio e di una pacca sulla spalla. La stretta di mano e lo sguardo perso sul culo della passante. Questo bisogno di una riconoscenza immediata che ci fa dimenticare la realizzazione grande dei nostri desideri e i sogni incisi sulla pelle soltanto con i tatoo. Le frasi degli altri.
La pazienza infinita della mendicanza. E i lavori saltuari. Sottopagati, sottostimati. E hostess, e steward, baristi, cameriere, e pubbliche relazioni, e agenti di commercio e impiegati al call center. Le nostre esistenze al nero di sette euro e i nostri cervelli al servizio del denaro degli altri. Siamo abbastanza choosy?
Quando la mente umana crea e si fa genio prima dei trent’anni. Quando la vita attiva dovrebbe far da piede sinistro alla contemplativa.
E ci costringono al vestito, al treno, i viaggi interminabili per raggiungere il grigio dei palazzi. Gli uffici piccoli e le scrivanie unite per ottimizzare lo spazio. Ci espandiamo in verticale noi che siamo fatti per gli orizzonti, e per le distese infinite del paesaggio rimandiamo al mare in estate. Vi siete mai chiesti il perché quando siamo in vacanza contempliamo lo spazio vuoto? Per far spazio a noi, all’esplosione delle nostre fantasie e alla creatività che sappiamo racchiudere soltanto in fotografie.
Non credo nei discorsi che i vecchi fanno sui giovani d’oggi. Credo ai loro racconti, alla loro gioventù. Ascolto i consigli confrontandoli al presente, al contesto. Credo che i vecchi e i potenti abbiano una colpa grande, una soltanto quella che mi fa urlare, cantare, scrivere e svegliare: pensarsi misura di tutte le cose, dispensatori di buoni consigli e col palco d’onore assegnato.
Quello che so è che i miei nonni lavoravano per il futuro dei loro figli e i miei genitori lavorano per il mio di futuro. E forse hanno pensato troppo poco a loro stessi per darmi la possibilità di scegliere e di essere quello che sono tutto il giorno e non soltanto part time. Mi hanno fatto studiare, scegliere, pensare. E ora dovrei essere choosy? Che non significa nulla. Dovrei essere il nulla. E preparare il futuro a chi? C’hanno rubato il futuro ho trovato scritto su un muro, e non ero d’accordo perché il futuro come l’amore o il sudore non si può rubare.
Quello che so è che i saggi che ho incontrato sapevano cucinare e invitarti a cena e sedevano a capotavola, tenevano la conversazione parlando il giusto, non affermando se stessi ma rivolgendo uno sguardo ai più, servendo il pranzo agli altri e spiegano cosa si stesse mangiando e la preparazione del piatto, le ricette usate e poi aneddoti originali e non. E nei racconti coglievo massime come briciole e sguardo dolce o duro a seconda delle occorrenze. Poi lasciavano il posto. Una pacca sulle spalle, uno sguardo, niente più. Nessuna ricetta per la vita, nessuno consiglio. Soltanto l’esempio. Si alzavano e se ne andavano. Uno sguardo. Si alzavano e se ne andavano. A fare, a pensare, forse a pensarci, nelle loro stanze. Ma non lo dicevano.
Si alzavano e se ne andavano.
Quando i direttori dei giornali raccolgono le lamentazioni e i sogni dei giovani si fanno contenitori e scatole. Ma nessuno ha bisogno di contenitori, noi siamo esplosioni, lanciarazzi d’emozione, notti insonni di desideri, insoddisfazioni quotidiane, e mali di vivere e gioie spropositate. Noi siamo più complessi di così e non bastano pagine a contenerci e nemmeno scatole. Siamo di più e non facciamo la rivoluzione perché la rivoluzione non sappiamo nemmeno cos’è. Che rivoluzione ha fatto il tailleur del ministro Fornero? E le riunioni di piazza delle femministe monologanti, i teatri pieni dell’ironia del pene e i vestiti eleganti sui palchetti della sinistra quale linguaggio si sono inventate? Parlano da giovani loro? Parlano da giovani, coi giovani, dei giovani quelli che giovani non sono più.
Io ho trent’anni. Certi miei coetanei hanno un lavoro, una casa, una macchina, un figlio o più d’uno, una moglie. Io nulla di tutto questo. Sono per questo un fallito? Io ho un sogno che non ho mai sognato, soltanto desiderato. Che a scriverlo così mi fa quasi schifo. Io ho una passione e una cosa che mi piace fare. Di una cosa sono sicuro: credo. Credo in me stesso e nelle mie capacità. Credo che una vita felice e realizzata sia possibile. Credo che prima o poi qualcosa succederà e non dovrò più controllare ogni giorno il mio conto in banca. Ma tutto sommato mi va bene anche così, rimanere in tensione verso l’obiettivo, in piena lotta, perché le vite sono tutte diverse e ognuno trova un motivo, un credo, un modo, uno stile per non trascorrere i suoi giorni in tristezza. Io credo e questo basta a non annullarmi e dare un senso al mio fare.
Miei cari ministri, potenti, direttori. Miei cari giovani. Chinerò lo sgabello del mio piede per farmi vostro prossimo, non presuntuoso, non sciocco, non egoista, non pusillanime, non codardo. Miei cari tutti, ognuno ha l’età che ha. Dateci uno sguardo, il volto dolce o severo, le mani aperte o chiuse. Parole poche e pensate. Poi alzatevi e andate. Nei vostri studi, nelle vostre stanze, pensate a voi e al vostro credo, pensate a che mondo vi piacerebbe, mica a noi che a noi ci pensano già in troppi. Avete mai creduto in un mondo? O vi siete accontentati di ciò che c’era? Forse non siete stati choosy voi, noi sì e ne rivendichiamo il valore anche se ripudiamo quella parola così volgare.
E poi ripetete con noi, che siamo in tanti: i vecchi sono stati giovani, ora non lo sono più.
Un vecchio può ricordare quando era giovane, non essere giovane.
Se i vecchi facessero i vecchi e lasciassero fare i giovani ai giovani forse i giovani saprebbero chi sono i vecchi.
E tornerebbero i maestri. E magari le correnti. E magari le avanguardie. E magari i gruppi. E magari…
E staremmo ore ad ascoltare i racconti. Ma i nonni non sanno più fare i nonni, nemmeno occupare con stile la sedia a capo della tavola.
Cerco i rami più resistenti per appendere l’altalena e spingermi con le gambe e togliere i piedi da terra per prendere il volo. Non ci sono alberi qui. Ne pianterò o andrò a cercarli altrove?
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