Le foglie nuove tra i capelli per i desideri di una vita risolta, la tranquillità dei caffè del dopocena e la domenica fuoriporta quando ho sempre desiderato il viaggio e la precarietà che si trascina nello zaino e dimenticarmi il tuo profumo, poi sulla fronte l’elettrocardiogramma dei tuoi sguardi e spargere lacrime in grappoli per i sorsi di vino mancato, per quei cocktail che non sapevi scegliere che deleghiamo agli altri i consigli per non prenderci troppo sul serio. Ho detto a tutti che se una montagna ti sfida è brama d’ascesa, altro discorso è il fascino eterno dell’abbandono, di quando le bussole segnano tutte il nord per le nostre stelle polari disegnate sul soffitto che Milano ci ricaccia la testa dentro e ci perdiamo gli incontri per il rilascio pigro degli intestini mentre il venerdì pomeriggio si popolano i centri estetici e i corsi di yoga, l’aperitivo e il Ciriboga, che ci serve una mano per separarci da noi. E nel centro della terra nascondiamo i nostri pensieri più bui, l’animalità senza collare dei nostri pensieri notturni, la secrezione delle nostre ghiandole e le polluzioni del cuore. Quei risvegli, i piedi nudi sul pavimento e il vortice ovattato del sentire, lo sciabordio delle scale e gli oblò dei nostri occhiali da sole per difenderci dagli sguardi invadenti delle telecamere dell’area C. E vorremmo che ci mettessero al muro, che ci controllassero le altezze lungo il metro a giraffa degli anni novanta quando bastava un citofono per scendere in strada e ricamarci sulle ginocchia la nostra sete d’affetto che tirare un rigore tra una panchina e una felpa col cappuccio era più d’un come stai, di un dove vai. E poi si faceva sera e succhiavamo il collo della maglietta per dissetare le nostre ore liete, il tramonto delle nostre giovani età quando ci nascondevamo tra i panni stesi, le biciclette con le ginocchia che superavano il manubrio, per poi bussare alla porta ciao mamma, ero qui, che avevo i capelli corti, così puro, così indifeso, così piccolo, così sciocco da credermi furbo.