Il vino mi fa male: le guance si gonfiano, il respiro si fa pesante. Calorie su calorie. Gli occhi socchiusi si muovono lenti, la tovaglia diventa un quadro da fissare e le parole scorrono velocissime fino a farsi confuse. La mano non lascia mai il bicchiere, armonia di polso e labbra, gengive rosse, denti rossi, lingua rossa. E desideri invadenti e infantili tra le pareti bianche e dita che scorrono sul telefono cellulare. L’assedio alla tua città fortificata mentre suonano alla porta pettorine fosforescenti infarcite di sorrisi e del bisogno di stare meglio donando il cibo, la casa, le cure, adottando gli sconosciuti. Ti ho stretto la spalla, amico, ti ho detto non mi interessa, io sono solo così solo così solo che tu non lo capisci, perché non te ne accorgi? Perché non lo fai, mi fa una domanda poi un’altra ancora, perché ci giri intorno? Perché continui a chiedere? Stai zitto, torna a casa, cucinati una pasta all’olio e sposati e fai dei bambini e ama tua moglie e cerca di essere gentile e non vergognarti di essere tenero e ammetti le tue debolezze, segui il tuo dio, credi nel bricolage, insegna a tuo nipote a pedalare e impara ad aprire le finestre, a sollevare lo sguardo qualche volta, l’hai comprato oggi il quotidiano? Non ti interessa, le mimose nella mano destra sei triste anche tu o non ci hai mai pensato? Ma dimmelo!
Notti sveglio a luce di smartphone sotto alle coperte, notti a pensare dove sei, alle tue lenzuola bianche e a resuscitare sua maestà Pier Vittorio Tondelli e dire che nei suoi racconti, prima dei libertini, era ancora immaturo e però ce l’aveva il coraggio e ci credeva così tanto che avevi voglia a giudicarlo, ma cosa giudichi tu?
Datemi altro vino e vino ancora, non appiccicatemi addosso le vostre parole di compatimento, che ognuno fa quel che può per tappare i suoi buchi. E se mi guardi in viso non mi credi così vecchio, a me che dei tuoi “invece io”, dei tuoi “dovresti”, non me ne frega niente. Sai, tu, lontana da me, nelle tue case bianche di neve bianca, nelle tue case azzurre di mare azzurro, tu, occhi enormi, tu caviglie fine, tu io ho voglia di parlare di stare ad ascoltare, di farti addormentare.
Ora lo so che sei circondata da gonne corte e occhialini da intellettuali, da scarpe prive di gusto, da maglioni larghi e da tanta di quella spocchia, dio mio, che vorrei salire su una sedia e leggerti ancora le mie parole imperfette come quella volta che sotto quel lampione c’eri tu e c’ero anch’io ed eravamo più giovani e magari liberi, prima di New York, prima di Parigi, quando ci rassicuravano i taxisti guardandoci nello specchietto retrovisore.
Il vino mi fa bene, ti dico, altera i tempi e i cambia il mio modo di guardare, se ne infischia del giudizio e dei ritardi, è capace di stare, di farsi ospite, il vino è mio compagno ti dico e se ti intristisce così tanto vedermi morire con lui, vieni e salvami. Ora c’è il mio cane che mi guarda e non capisce, mi viene vicino e mi lecca le gambe, e non dice niente al sole di oggi. Socchiudo gli occhi e mi viene in mente l’atterraggio dell’aereo di ritorno da Dublino, è notte e le auto sono piccolissime, e luci tutto intorno e gli uomini invisibili, invisibile anche tu.
Foto: © Alec Soth.