Una frase molto stupida da dirti stasera

Non rimane che la notte è una frase molto stupida da dirti stasera. Tanto non puoi sentirmi e già dormi, tanto non puoi raggiungermi, e già sogni. Mi hai detto ho incontrato i miei amici, mi sono trattenuta solo un poco, la strada era trafficata, ho bevuto quattro sbagliati per poco affogo. Io intanto mi sento come a nove anni alle prese con le divisioni, e troppe dita per contare il tempo che spreco a battere sui tasti, a rincorrere le parole prima che scappino. Un vecchio mi guarda, mi sussurra è una posa la tua, sei così finto, si aggrappa alla sedia, la tiene più forte, poi sale sulla scrivania e mi scruta dall’alto, non è colpa mia se sei così sciocco, che ti dice tuo padre? Che lavoro fa tuo padre? Ti vuol bene tua madre? Torna tra vent’anni e lega l’ultimo bottone della camicia, mi dice, sarai morto gli dico, prende la maledizione e la lascia alla sua segretaria. La rabbia tra i denti e un bicchiere di vino, poi un altro, che colpa ne ho se tutto intorno invecchia e nessuno fa caso alle foglie gialle, alle foglie rosse, mentre in foto vengono così bene le orchidee. Mi sono comprato una canoa per galleggiare meglio sull’inconsistenza dei vostri ragionamenti, dimagrite tutti e non mangiate più, la vostra bocca è già piena, non resta che vomitare parole d’odio, parole d’amore, parole di stima, parole di plastica verso i cieli dell’inconsistenza, parole così leggere che non cadono mai. Io non ascolto, non più, io guardo soltanto, gli occhi, le labbra, le spalle. Non m’ingannate, sapete? Non faccio l’inchino, non chiedo permesso, non dico sì, grazie. Voi confraternite, famigliole, borghesucci di zucchero a velo e sigarette, di cortesia e generosità, di grappoli d’uva al tramonto e cashmere, gioielli, profumo di lavanda e pubblicità quotidiana e il cognac, solo quello buono. Ti chiedo la mano e mi rispondi con supponenza, ma che ti credi, ma cosa vuoi, ma tu chi sei, mi dici, e poi mi spieghi la vita tra le mura dei teatri, le sale coi nomi altisonanti, moriamo soltanto per essere ricordati, pensi. Vorrei essere più leggero anch’io, così non mangio, non dormo, afferro il primo aquilone e parlo con il corvo, mi dice io mangio gli occhi perché chi troppo vede troppo sa, chi troppo sa troppo ignora, chi troppo ha troppo vuole. Gli chiudo il becco, gli dico basta, raggiungo l’aquila e ne imito il volo, mi dice scendi, tu presuntuoso, che cosa c’entri col cielo? Così la terra mi dice vieni, io scendo piano, mi faccio terra, che terra sono, che terra ero, nasco di nuovo, un po’ più curato, più scemo, più furbo, camicia bianca, tribuna, che bello, dalla prima fila è tutto un incanto. Ma quel ragazzo che ci fa così indietro, che guarda, che vuole? La sciarpa, il cappotto, vede il contorni, le contraddizioni, vede lo scuro, ma qui è tutto bianco, chiamatelo ora, portatelo avanti, salutatelo, avanti, per bene, correte, chiamate il corvo, cavategli l’occhio. Ti ho scritto un biglietto di carta, ci ho scritto ti amo, manco ci credo, una carezza al tuo maglione bianco, un pugno sul muso, poi terra, la terra, soltanto la terra. Nasciamo sconfitti e poi la scelta, se il raccolto non c’è, puoi venderti tu. Io invece no.

Foto: © P. Lorca diCorcia

2003-DICPH1480-1001

 

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