Quando mi hai detto questa sera non vengo perché sono stanca ho pensato all’assurdo. Assurda questa abitudine di svegliarci al mattino e finire tutti sotto alla luci al neon che consumano meno ma creano danni permanenti alla vista. Tra i telefoni che squillano la tua voce si confonde con quella degli altri mentre io me ne sto chiuso in casa e appendo lenzuola alle finestre perché gli operai che sistemano i lampioni imparino a farsi gli affari loro.
Barbara D’Urso continua a insegnare che è necessario lanciare inviati per conoscere le storie brevi che ci circondano e poi piangere o ridere di gusto. Mi annoia perfino sfogliare i quotidiani ormai troppo simili alle riviste, scoprire che Fabio Fazio si è fatto crescere la barba come gli hip di Milano, che te ne importa, mi dici e poi ti incazzi.
Io mi accendo una sigaretta col fuoco dei fornelli, guardando dal balcone penso che mi mancano i concerti di Francesco Guccini quando ce ne andavamo a dormire in tenda di fianco ai laghi e illuminati soltanto dalla luce delle sigarette non riuscivamo a guardarci in faccia. Poi al mattino ci lanciavamo nell’acqua senza paura, noi e le nostre felpe consumate sui gomiti, noi e tutte le confidenze che non avevamo il coraggio di farci. Tu eri così giovane che non mi avevi ancora rovinato le guance, avevi le unghie corte e nessuno ti fermava per la strada. Ora la tua auto è parcheggiata da mesi sempre nello stesso posto, sull’aereo ascolti le canzoni di quelli che sono diventati i tuoi amici mentre io cammino col cappuccio e i capelli sul viso e in libreria sfoglio le prime pagine dei libri appena pubblicati. Non voglio pensare che l’amore si meriti e non mi interessa l’eroina, no, davvero, preferisco le canzoni di Ligabue anche se non le ascolto da quindici anni.
Mi chiami dall’America per dirmi che so scrivere anche meglio di così, che me ne importa, ti dico io, è solo un blog, ma se lo legge Lagioia? Mi dici, se te lo legge qualcuno che figura ci fai. Alzo le spalle, penso non me ne importa niente e mi viene da ridere. Ti dico che mi manchi un sacco e fai finta di niente, mi prendi in giro perché a trent’anni parlo come i ventenni, poi mi proponi un saggio di Aime per dimostrarmi che tutto è relativo. Ti espongo così la mia teoria del mondo obliquo, dei fili invisibili che ci trattengono delle relazioni sante che vogliono soltanto il bene.
Tu attacchi il telefono al muro, avrei voluto parlarti ancora e ancora, cerco rifugio nel ricordo di giorni a dimenticarsi del senso in Sudamerica e occhi spalancati e sveglie che suonano presto e zero voglia di dormire, soltanto cosce da incastrare e lingue da consumare.
Bussano alla porta ed è il prete per la benedizione di dicembre, ha paura, chissà che gli dicono, chissà come lo trattano, e poi si lamentano dei cani vagabondi. Lo invito a entrare, è vestito di nero come quei ragazzini agli angoli del Naviglio il venerdì notte, arriva il Natale e tutti gli hip indosseranno maglioni con renne e stelle, magari anche lui, magari da solo. Mi benedice con l’acqua fredda, poi saluta e se ne va, mi sembra si vergogni.
Mi siedo davanti al MacBook, nessuna meraviglia, parliamo tutti di costellazioni e dello scorrere del tempo, lo facciamo dalle nostre postazioni internet, sui blog e in chat, poi ci mangiamo il sushi e diciamo, beh, alla fine è sempre buono e le coperte non pesano più, ci addormentiamo insieme sempre troppo stanchi per scopare. Al mattino il suono della sveglia; tu dici è tardi, io ti preparo il caffè a torso nudo e neanche mi guardi, cerchi il reggiseno e ti lavi la faccia, un bacio sulla guancia e nuove luci al neon.
Era meglio quando c’era Annie, tutto è finito con lei, è iniziato con lei.
Doveva andarsene ed è rimasta da te, vi trovavate così bene, dicevi, se ne tornerà a Parigi soltanto a gennaio. Così baciavo te e baciavo anche lei. Ascoltavamo canzoni bellissime e ballavamo soli e ci facevamo fotografare anche in doccia, tu eri tornata a drogarti e a bere, ti chiamavano ogni mattina dal lavoro per chiederti che fine avessi fatto, rispondevi che eri malata e ti travestivi da uomo e mi tagliavi i capelli e lei si accontentava di guardarti di schiena mentre ansimavo tra i tuoi capelli, mi facevi venire con soddisfazione, poi ti chiudevi in bagno per un po’, uscivi nuda a chiedere a me e a lei di indovinare il tuo profumo. Vinceva sempre Annie perché io i nomi dei profumi non li ho mai saputi. Le mie narici bruciavano, lei cucinava malissimo, faceva bruciare tutto, così ordinavamo pizze a tutte le ore e scattavamo polaroid a quei poveri giovani protetti dal casco lasciandogli il resto come ricompensa anche se i soldi stavano terminando e i bancomat erano sempre troppo lontani.
Dal lavoro non ti chiamavano più, Annie faceva il conto dei giorni che la separavano dalla partenza e si chiudeva in camera per giorni, oggi il Cristo nasce e prima o poi morirà avevi urlato quel giorno, Annie sembrò risorgere dai suoi malesseri , riaprì la porta della cameretta e ballò della dub vestita soltanto di un body verde fosforescente, aveva dei tagli sulle gambe che continuavano a sanguinare.
Tu ti eri chiusa in camera a piangere, io mi ero vestito ed ero sceso sulla strada. Mi sembrava di essere stato secoli lontano dalla terra, avevo gli occhi piccoli e i capelli sporchi. Mi ero seduto su una panchina e aspettavo che i passerotti si posassero tra le mie dita, ma non succedeva, soltanto in Bambi gli uccellini si colorano di blu, io non avevo corna e nemmeno pensieri.
Oggi qui è tutto cielo, i giorni si assomigliano soltanto quando la tua vita si sta consumando nell’ignavia, io sono ancora sulla stessa panchina, una ragazza mi chiama dice che ci fai lì, vieni a manifestare, chiedo per cosa, per le case, risponde, sono tutti dei bastardi, non è democrazia questa, non c’è libertà. Allora mi alzo e vado con lei, è bionda, è bella. Ha le unghie colorate di cinque colori diversi e non riesce a stare ferma, urla forte. Abbasso la testa, mi squilla il telefono, è Annie, ha deciso di partire e vuole salutarmi, dice che non morirà, le dico ciao, fai buon viaggio e ricordati di andare a letto presto.
Lei se ne sta ancora in camera a piangere e a soffrire per la partenza di quell’amica che amica non è mai stata e nemmeno amante e nemmeno io so che cosa è stata Annie per noi. Ora è tutto silenzio, ho voglia di mettere le mani sotto l’acqua bollente tenerle là finché bruciano perché il dolore è il mio nuovo piacere. Tu piangi e io non me ne accorgo. E fuori è pioggia. E arcobaleni sul cielo di Roma.
Foto: © Bernard Faucon