L’habitude tue

La fronte sanguina, la pietra è rossa, ci perderò il senno ma prima o poi il muro cadrà e sarà polvere tutto intorno. I miei occhi nei tuoi occhi, il tuo profumo nelle narici, le tue mani nell’aria e le mie che le rincorrono senza farsi accorgere. La cocciutaggine prima o poi avvera il desiderio, ma il tempo, il tempo è l’avversario che inquina il respiro e invecchia la pelle. Quando ti avvicinerai per baciarmi le guance penserò è tutto assurdo. Tutto questo buio che ci siamo fatti intorno, quei lampioni spenti a calci, tutti gli aerei che ti hanno portata lontano, tutti i quadri che guardi, la natura che ti nasconde, le fotografie che ancora scatti e le cene per il benessere degli altri. E ora che una fiamma l’abbiamo accesa ti resta soltanto dire che le relazioni sono come i batteri, crescono tra le debolezze, che se fossi più forte saresti irraggiungibile. Non è ancora giorno e non mi vedi bene, per l’intero, ti dico, occorre pazienza, tu non l’hai mai avuta, mi dici, ma se sono ancora qui, ti rispondo io. La notte è troppo fredda per sostare davanti alla tua porta, aspettare ancora un tuo ritorno. Gli ospedali e i preti dicono la vita è breve, facciamolo insieme lo sforzo inutile dell’eternità. È nell’immaginazione che si consumano i miei giorni. E quando ti guardo dopo infinite lontananze, sai cosa succede? Fai così, sali sul treno che porta a Venezia S. Lucia, esci dalla stazione, prendi qualcosa di caldo da tenere tra le mani e poi fai attenzione ai turisti allontanarsi dai binari e giungere alla vetrata che dà sulla laguna, guarda i loro occhi che si aprono, le labbra che si tendono, le parole di meraviglia che non sanno pronunciare… quello sono io. Era soltanto un esempio, sai, se ci incontrassimo sarebbe così ogni giorno, alla fine ti abitueresti e faresti un disegno col tratto nero e i cuoricini, scriveresti l’abitudine uccide in un’altra lingua, che l’italiano suona volgare quando si tratta di sentimenti, pensi.

Foto: © Clarissa Bonet

rain

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