Le rose te le ho disegnate per sbaglio, perché oggi è sabato e la voglia di fare è appoggiata al muro come le chitarre che non suono da anni. La polvere entra dalle finestre ma non me ne accorgo. Ora dovrei fare una foto al foglio, poi tramite l’applicazione apposita dell’Iphone aggiungerci qualche filtro e inviarti tutto sulla chat di Facebook. Mi sembrava così originale quando l’ho pensato, ora invece mi appare scontato e me ne vergogno. Eppure lo farò, e infine premerò invio e aspetterò una tua risposta. M’avventuro in tutte queste sciocchezze perché sono malato di attese. Tu non mi rispondi e allora io ti scrivo ancora. Poi ancora. Passano i giorni, le settimane, è quasi un mese. In questo tempo ti ho immaginata spesso, prima di dormire, durante la notte, appena sveglio, cercavo qualche tua foto nuova su Instagram per sapere dove immaginarti. Tu non pubblichi mai foto di te, tranne quando vieni benissimo, e non succede spesso. Così ogni volta devo immaginarmi il tuo sguardo e penso sempre chissà se hai tagliato i capelli. Poi finisco a fare ipotesi sulla circonferenza delle tuo cosce, non è un pensiero gentile, lo so, ma non lo faccio per via dei modelli estetici delle pubblicità, ma perché quello che mi piace di te sono le tue imperfezioni. Suona retorica quest’ultima frase, non è vero? Quello che mi manca di più, invece, sono le tue parole. Così tra un caffè e l’altro improvviso dialoghi con il mio cane, ha il pelo lungo che gli nasconde gli occhi e non risponde mai, dorme quasi sempre. Così ti chiamo col suo nome perché quando lo sente almeno reagisce, muove la coda, si avvicina giusto il tempo di qualche carezza e poi torna al suo posto. Dell’individualismo dei cani scriverò un’altra volta. Per ora basta il tuo, e non è un rimprovero, sappilo. Ognuno col suo recinto fa quel che vuole, che il mio sia sempre aperto è un’altra storia e non è poi così sincera.
Foto: © Giulia Bersani