C’è stato un tempo in cui indossavo scarpe da calcetto per attraversare le strade, con la masturbazione andavo forte e frasi come “Vorrei, in tutti gli altrove del mondo vorrei” mi sembravano adatte ai tramonti e degne di essere chiamate poesia. Ora di quel mio pensare soltanto ricordi e nostalgie, quella più grande è il battito del cuore prima di leggere l’sms della ragazza più carina della compagnia e l’ansia prima delle partite di calcio della domenica quando entravo nell’undici titolare perché coi piedi ci sapevo fare e l’allenatore faceva finta di non vedere la pancetta o le borse sotto gli occhi dopo i sabati sera trascorsi sui balconi a guardare le luci dei centri commerciali e ammassare bottiglie di vetro vuote come si ci fosse qualche record da raggiungere o una reputazione presso gli amici da mantenere. Ora indosso magliette nere, occhiali neri, pantaloni neri e scarpe, anche quelle nere, porto i capelli lunghi e chiedo agli sconosciuti di tagliarmeli perché lo so che nessuno ha il coraggio, ma è un bel modo per farsi ricordare.
Stavo scrivendo tutto questo sul mioMacBook pensando potesse rivelarsi materiale utile per il mio blog quando lei si sveglia, dice buongiorno e si stringe le ginocchia al petto, forse si vergogna per l’invadenza dei suoi capezzoli. Fa così caldo che non servono lenzuola, e le finestre sono tutte aperte. Non c’è vento e polvere sul comodino e polvere sui libri appoggiati al pavimento, lasciati là come le costruzioni del Lego, in attesa di essere terminati o di tornare in biblioteca. Macbeth qui non c’entra, lo getto lontano. Lei apre le gambe. Poso il MacBook sul pavimento. Labbra su labbra, petto su petto, lingua su lingua. Ci strusciamo senza prendere fuoco. I nostri baci si fanno molli e stanchi, accarezzo le sue guance per farla sentire desiderata, stringo il suo sedere così che mi riconosca virile. “Non mi va.” Lei mi bacia il collo, cerca il mio sesso, la allontano. “Che c’è?”. “Sei un’egoista,” dico io “vuoi farmi sentire in colpa?”. Lei si sistema i capelli, poi trova il pacchetto di sigarette sul comodino. Le dita impolverate, porta il filtro alla bocca, accende, fuma. Si alza e raggiunge la finestra a culo nudo. Io glielo guardo, è tondo, uno di quelli che non ha bisogno dei tacchi per farsi notare. Lei continua a fumare, il suo viso di tre quarti. “Pensavo di piacerti.” “Mi piaci, solo che non ho bisogno di te.” Faccio una pausa. Lei aspira. “Tu non rispetti i miei tempi, i miei silenzi, le mie pause. Io ho bisogno dell’amore, del desiderio, non di te, se potessi vorrei il tuo sedere lì, sempre lì, come è adesso, vorrei spegnerti e riaccenderti, sapere che ci sei, ma non troppo presente, capisci cosa voglio dire?”. Lei lancia la sigaretta dalla finestra, si volta, ha perso la vergogna e posso guardarle l’intero corpo illuminato dalla luce del giorno. Ha gli occhi umidi, ma non piange. “Perché scrivi?” “Sei la centesima persona che me lo chiede, credi di essere interessante?” “Scrivi perché hai bisogno di consenso, del mio applauso, poi non ti basta e vai a cercare altre mani pronte a far chiasso e lingue morbide che incontrino la tua che, povera, è sempre sola, e sempre più amara.” Apro il Macbook, lo sistemo sulle ginocchia e faccio partire la voce di Gainsbourg. “Sei prevedibile.” Dice lei. “Credo dovresti andartene.” Dico io. “Lo avrei fatto comunque.” Dice lei. “Fatti una doccia, prima.” “Non ne ho voglia.” Le porto un accappatoio, lei non fa resistenza e lo indossa, stringe le mani intorno al petto e si chiude nel bagno. Abbasso la voce di Gainsbourg, ascolto l’acqua che cade, non c’è nulla di poetico, spero faccia presto e se ne vada. Ancora in mutande mi siedo al tavolo della cucina e dietro a un biglietto nuovo della metropolitana scrivo: “Sei così bella, perdona il mio fare, ci sono uomini più degni di te. Ti cercherò ancora, magari non risponderai. È l’immanenza che fa grande il desiderio. Poi viene la nostalgia. Ti bacio, questa volta sul naso, con simpatia. M.” Lei esce dal bagno, è profumata, ha i capelli bagnati, è già vestita. Si avvia verso la porta, la sento e le urlo “Aspetta.”, lei rallenta, io la raggiungo, la prendo per i fianchi e le appoggio il biglietto della metropolitana sulla mano. Non la lascio parlare, la bacio senza interesse. Lei mi bacia. Mi stacco, le accarezzo il viso. Profumo di docciaschiuma sotto le narici. Apro la porta, lei scende tre scalini, poi si volta, le sorrido, chiudo la porta. Mi sento sporco, apro il MacBook e controllo la chat, scelgo a chi scrivere ora, scrivo così: “Sei così bella, perdona il mio fare, ci sono uomini più degni di te. Ti cercherò ancora, magari non risponderai. È l’immanenza che fa grande il desiderio. Poi viene la nostalgia. Ti bacio, questa volta sul naso, con simpatia. M.” Lei entra in metropolitana, timbra il biglietto che le ho regalato, il cancello si apre e la lascia passare.
Foto: © Giulia Bersani
Un viaggio in te che sei le ostinate ed insoddisfatte contraddizioni di tutti noi…e non vorrei in tutti gli altrove del mondo non vorrei…essere il poeta che sono.