A Sarajevo. A Buenos Aires. A Bangkok o a Follonica entrare in un cinema vuoto, immaginare il mondo attraverso lo schermo, stringersi nelle spalle e scivolare col culo sulla poltrona. Gli occhi guardano e i pensieri scorrono. Le more, lo yogurt e le olive kalamata, i cetrioli sugli occhi al mattino, a prenderci cura del corpo per farlo brillare al sole e ritrovarsi a far luce sui giorni passati, cercare futuri col binocolo e vederli minuscoli o troppo grandi, fino a che il mezzogiorno non abbaglia gli occhi mentre le nostre mani riparano la fronte indicando la linea che separa cielo e mare. Guadagneremo così tanto da poter girare a tasche vuote, tutto in una carta, dimenticheremo gli occhi sulle lenzuola e torneremo a ridere soltanto su suggerimento dell’alcol. C’è chi sale sui monti, chi invece scende, chi pianta ombrelloni e chi fa forza sul pedale o punta il piede sulla terra per riscoprirsi corpo dopo giorni di scrivanie e aria condizionata. E noi qui, ad affannarci in parola quando invece per dirla tutta esiste soltanto la presenza. Inutile che ti racconti della mia maglietta a righe, dei capelli che non mi cadono più sugli occhi o del pelo che mi decora il petto, quando ti chiamo esplodo in complimenti e tu mi dici soltanto le mie mura non cadranno mai, io come Roma, domina mundi. Non ti capisco ora, né mai, hai voglia dirmi che il mai non esiste, ci sono alfabeti intraducibili e la condivisione mancata del frattempo. Così le nostre lontananze son meridiani che non s’incontrano e si avvicinano soltanto ai poli, dove fa troppo freddo e finiamo per guardarci il respiro e farci avvolgere dalla malinconia. Non penso alle cosce più sode, alle labbra più dolci, che me ne importa della tua pelle liscia, del pascolo dolce della tua schiena e del tuo nasconderti dietro alle spalle, lasciami il tuo odore tra le dita, il tuo pianto tra i capelli, lasciami le tue parole sul cuscino e rallegra i miei risvegli con i tuoi canti fuori moda. Di là dal muro, fuori dagli orologi e dallo schiudersi delle noci sulla tavola ci sono luci accese e ritmi incomprensibili, culetti che battono in quattro quarti e mani decorate in anelli. Dovrò preoccuparmi ora della coerenza? Quando l’unico senso che mi rimane è la vista, dimentico il cuore e aspetto l’inverno. Quando avremo meno tempo per la poesia e dovremo affannarci in ricerca. Ed ora dimmelo come è possibile sentirsi bene una stagione all’anno, e il resto maggese e occhiali da sole? Puoi immaginarmi così, ora: il trench lungo, blu, il cielo grigio e pomodori rossi in mani rovinate, perché busso alla tua porta e tu continui a temporeggiare.
Foto: © Anna Di Prospero, http://www.annadiprospero.com