Chi chiama l’angoscia consapevolezza, dicevi, quello è il rivoluzionario. Così ribaltiamo le tavole, ci leghiamo alle caviglie il giorno e corriamo a più non posso per seminarlo. Invece è sempre lì, basta girarsi, magari accogliente, magari malvagio. Coi segni delle unghie sulla schiena mi ripeti che la sofferenza è piacere. Fuori dalla porta, e fuori dai negozi, e fuori dalle balere, i settantenni camminano bianchi, scarpe cinesi ai piedi delle ragazze e quelle pance in bella vista che un giorno cresceranno. Poi ci sono i treni, gli innamorati che si incontrano e quelli che si perdono. Il tempo vuoto dei ricchi e le tasche piene dei poveri. Perché il disperato, sai, accumula frivolezze: biglie, accendini, sassi e tante funi. Bisognerà pur trovare un passatempo. Suonano i palchi di mezza Italia, il sudore si mischia, nessuna parola del premier su Gaza. Coi pensieri legati allo zaino svolazzeranno nastri bianchi, come qualche anno fa, contro le guerre noi. A favore di cosa? Dei cieli bianchi, delle orchidee, i diritti delle foche e l’autonomia della donna. Mi manca una tua foto oggi, volevo tenerla qui, tra i pixel, riguardarla a notte per trovare il senso, circumnavigare è una parola così infelice. Faccio fatica a rimanere coerente, lo sai, mille inizi e soltanto una fine. Che posso farci? Ti dico. Fossi un pittore mi apprezzeresti. Oggi il tuo passo, la stravaganza dei tuoi capelli, il modo in cui sorseggi dalla bottiglia. Il cieco immagina, così io, le tende abbassate, la luce spenta, e prove d’arazzi, quei fili che fanno il disegno. Ti puoi sedere, ti puoi sdraiare, ora togli le scarpe, il piede è già nudo, la fune è pronta, basta fidarsi, una mano, poi l’altra.
Quadro: © Andrej Koruza