Le bandiere bianco e verdi sfidano l’aria nelle strade larghe della capitale. La storia negli urli dai finestrini, da questi cori che si innalzano nel cielo immobile sulla Senna. Una vittoria e la speranza di passare alle fasi finali dei Mondiali. È il calcio al pallone, la tecnica che si esibisce in tocchi d’esterno e rabone veloci, il fisico spinto allo stremo, e finalmente il canto. In questi giorni di gare, prati verdi e sudore, non penso alle vittorie, nemmeno alle sconfitte, mi esaltano le urla e gli occhi, il respiro che rimane nel petto durante gli inni e la concentrazione che dimentica la pettinatura perfetta. E poi i balconi, le televisioni accese, le pizze consumate, la birra che rinfresca e ritorna in sudore. Ho dentro un tunnel buio, milioni di globuli bianchi e rossi, riflussi gastrici e valori del sangue sballati. Questa inquietudine chiede il conto alle dita, le scava in ferite e le riduce a sfoglie cheratinose. È tutto un grattarsi, confondere il fastidio col dolore. C’è una ragazza che serve da bere, un’altra che prepara gelati, siamo così soli che ci sorprendono le attenzioni, così non c’è culo che tenga il passo di un ti vedo stanco, come mai sei triste o che ci fai qui tutto solo? Ti ho scritto una storia, ieri, l’ho regalata a un bambino americano che non poteva capirla, credo abbia detto a suo padre, quel signore è pazzo. Io lo capisco. Come pretendi di essere compreso se non conosci le lingue? Non basta la sensibilità, nemmeno l’eleganza dei modi. Gli amici si ritrovano tra i divani, si scambiano il cinque senza guardarsi, perché non c’è bisogno, perché presenti e vicini sanno fare della banalità amicizia, e nei discorsi superficiali c’è qualcosa di più del contenuto, che è la mancanza di limite, la non paura del giudizio, la libertà dell’essere sé. Non preoccuparsi delle labbra, dello slancio che fa la lingua quando si perde in generalizzazioni sciocche, in giudizi infantili. Mi manca il mio essere senza contorno, ad abbracciare le spalle di chi ho visto inginocchiato davanti a un cesso a maledire le nostre notti insonni e le euforie che portiamo nelle borse sotto agli occhi. Le pale dell’aria non funzionano mai, il letto mi accoglie e le lenzuola si colorano del sale che il mio sudore abbandona, perché ho ancora sapore, ti dico, magari assaggiami, magari un giorno, magari leccami, magari. E fuori caroselli, e fuori le infradito, tutti a confonderci, tutti nel mare, le conchiglie sull’orecchio e suoni indefiniti per dimenticarti.
Foto: © Giulia De Marchi