C’è un uomo sul marciapiede, là dove fermano gli autobus. La camicia bianca, una giacca blu. I capelli ripassati a pettine, una peluria leggera sulle orecchie. Le mani consumate da vene bluastre. È serio in volto, a intervalli regolari le sue labbra si piegano in smorfia, si fanno pernacchia, poi tornano serie. Io rido. Alzo le spalle. Mi appoggio al muro e resto ad osservarlo. I passanti fanno finta di nulla, un vestito leggero in rosa e fiori blu prende la rincorsa dopo lo spavento. Gli occhi di lui rimangono immobili, fissi a un’orizzonte che non c’è. Mi avvicino. Pupille grigie, le guance scavate, le tasche lise. Sente la mia presenza, spernacchia ancora. E schizzi di saliva e l’arrivo dell’autobus. Turisti che scendono, turisti che salgono. Lui fermo, senza le scarpe. Un uomo immobile come una domanda, a che serve tutto questo girovagare? Riempire gli occhi della cultura del frastuono, le lunghe attese e il biglietto pagato per poter dire io c’ero, io ho visto. Esistiamo nel verbo, è vero, e va a finire che proviamo piacere nell’ora lenta del dopo tramonto, la tovaglia chiara e il coltello affilato che affonda la carne. Tra gli angoli e i sampietrini a cercare qualcuno con cui inventarci una storia ed evitare le rose recise, mentre esplodono le telecronache dalle finestre, e posate che cadono e canottiere bianche, peli neri su petti abbronzati. Tutto quel pastello che ti circonda e ti protegge, le frasi che ci interrogano sui muri del centro e bottiglie vuote nelle strade strette, bottiglie vuote sui tavolini dei bar, bottiglie vuote sulla mia tavola. Per le tue assenze non c’è più registro, ma il suono costante di un clavicembalo, il pensiero ai tuoi viaggi prima di chiudere gli occhi e chiedere al sonno di cancellare i ricordi. Potrebbe esserci un’alternativa all’esclusiva dell’a tu per tu, a queste solitudini di luglio, alle giornate lunghissime che non hanno rispetto del nostro buio. Le lucciole in collina e noi qui, a pisciare tra le auto in sosta, a farci maledire dai cittadini modello. Abbiate un occhio chiuso, uno aperto per perdonarci, considerata la nostra follia come una domanda di attenzione. A far pernacchie al mondo nei nostri vestiti usati, per l’eleganza che chiede la strada i nostri occhi trasparenti, lo sguardo vivo muore nell’inutilità di una lingua che ha tutto ha perso e senza scarpe si fa immobile. Mentre gli autobus passano e i turisti non hanno tempo per diventare le braccia di nessuna Maddalena, di accogliere un capo che non ha forza per restare dritto e si guarda indietro e indietro non trova nulla, così, perso, non sa dove lasciare gli occhi. La pernacchia è soltanto un riflesso, uno scherzo del sistema nervoso.
Foto: © Benedetta Falugi, http://www.benedettafalugi.com