Una fontana. Turisti nei calzoni corti, studenti camicia a righe e sigarette arrotolate. E un cane, zampe posteriori piegate per dar forza al busto, poi il salto e straripare d’acqua e gradini che si colorano d’acqua e spruzzi d’acqua e rivoli d’acqua. L’animale non fa caso ai putti di marmo che gli pisciano addosso, nemmeno ai capezzoli delle naiadi; distingue il necessario, beve. Un altro salto. Il cane si scrolla, è schizzo, bava, è pioggia. La folla reagisce, qualcuno ride, altri gettano l’indice, chi abbandona le panchine lasciando gli averi sui sassi, non sarà una catastrofe, ti dico. Torneremo ai nostri posti di controllo. E a chi ti dice che attende, ricorda che è il salto a rompere l’equilibrio. È l’animalità di un istinto, un nudo nel mezzo del giorno. Quando giocare col tuo seno diventa semplice, e ci stingiamo per affetto, lasciamo il fuoco agli adolescenti, torniamo ai tramonti senza vergognarci. Le corse per rientrare a casa in tempo, ginocchia sbucciate e tasche zuppe di carte di caramelle, labbra al cioccolato e polvere tra le sopracciglia. Dispersi ora nelle città del mondo, quando un giardino era un planetario, proiettavamo i nostri vorrei e non sapevamo ci avrebbero dispersi. Così tu a Milano, poi Londra, c’è Sidney, Parigi, e tutte quelle province che non collegano i Freccia Rossa. Ti ho scritto una lettera tre volte, l’ho stracciata quattro. Che senso ha scriverti se le mie dita restano lontano dai tuoi capelli, secoli e secoli a cercare conchiglie sulla spiaggia bianca, per salire sul promontorio delle tue cosce, gettarmi in mare e affogare in te. Perdermi e ancora perdermi, nel giro lento che fa il mio dito, riflessi blu sulla tua schiena, le nostre tende chiuse. Fuori a prendere il sole lasciamo i gabbiani. Una fontana, tu. Un deserto qui intorno. Ho sete, così seguo i cani, annuso l’aria, mi metto a correre. Non c’è padrone che osi chiamarmi. Non c’è ritorno.
Foto: dalla rete.