Le dieci e quarantacinque del sabato e le chiamate delle compagnie telefoniche. E poi l’urlo forte del mio io su questo cielo avido di nuvole che tiene il bianco per la notte e nelle ore dell’alba dispensa soltanto arie di vanità, coi piccioni a specchiarsi nei vetri dei grattacieli. Muoiono le mosche, muoiono ogni giorno. Sul fondo del mio letto i cadaveri delle zanzare. Voi che al mio cospetto vi fate silenzio codardo, voi, figli di stelle spente, abbraccio i lampioni per trovare affetto in altezze e poi un calcio e buio sul davanzale dei miei vorrei. Questa parola infeconda dispenso dagli altari della vacuità. Il pensiero debole del qualunquismo appiccicato alle scarpe come una gomma già masticata da altri. Mi sveglio sulle tue labbra per cadere nel nero dei tuoi intestini e poi disfarmi nell’acido dei succhi gastrici. Cercavo il tuo battito, ho trovato soltanto colpi e ferro e dolore per lo sfregamento delle nostre interiorità. Ti ho offerto poi il succo del mio frutto maturo e l’hai confuso con il via vai delle auto di piazza ventiquattro maggio. I miei capelli finiscono in boccoli per ribellarsi alla rilassatezza dei più. Comincerò a vestirmi di nero perché risplenda il bianco dell’umor acqueo degli occhi e dispenserò sguardi come brioches per le tue mattinate stanche e l’odore del caffè che non sa raggiungermi. Lascio i bagagli in piramide e affondo il piede nell’asfalto molle d’agosto. E mi allontano da te come ho fatto con tutte. Che il mio respiro esala verso il basso e non è più tempo di rivoluzioni.
Foto: © Francesca Woodman
Photo editing: Alessandra Tecla Gerevini
Reblogged this on i cittadini prima di tutto.