Per tutto ciò che mi è lontano: i messaggini sul cellulare e la chat di facebook. Anni fa non era così. Che inforcavo la mountain bike per arrivare sotto casa tua e incastrare i baci nel citofono e urlare scendi, dai, e prenderti per mano e raccontarti il mio nulla che un tempo era molto. Non ho ricordi che non siano immagini e il dolore che queste trasportano. Che se le parole a ripeterle perdono il loro significato, con le immagini è diverso, queste ti si incastrano tra le vertebre e il ricordo si fa lente per nuovi sguardi. “Uscirei con te solo per dirti che sei una meraviglia”, questo avrei voluto dire alla ragazza anoressica che attraversa la strada davanti a casa, il viso bello e quelle stampelle al posto delle gambe per resistere all’urto travolgente che è il lento scorrere dei giorni. Direi addio al computer per prendere le strade di montagna, i sassi enormi e chiedersi da dove tutto questo ebbe inizio. Il mio naso non distingue più gli odori dell’intorno, che è tutto un grigio e le sfumature non emozionano più. Nelle narici incastrati i profumi dolci delle ragazzine e il puzzo di benzina dei semafori. Questo desiderio di aprirmi al presente e far entrare una vita. Il concepimento all’incontrario. Io che nasco il mondo in te e il mondo che in me rinasce. E verranno a parlarmi di umiltà, di mani tese e poi del bene. Non mi strapperò i capelli, non alzerò le spalle, ma urlerò forte il mio: ti rendi conto? Ti rendi conto che l’umiltà è bassezza, e piccolezza, riconoscimento del proprio limite nello sporco del terriccio. Nel nascondimento di vermi e putrefazioni e semi nuovi e piscio e sperma e chissà quali altre sconcezze. Io solo così, nell’abisso, nel limite nitido e contro la cecità del bene riconosco la mia limitatezza. Non c’è sole che riesca a illuminarmi completamente, non c’è luce che possa rischiarare le piante dei miei piedi che affondano il suolo. E allora parlami di bellezza, fammi ammosciare confondendo la grazia con le movenze lente della riflessione statica. Non cederò al pensiero dei quotidiani, all’antico gioco dell’educazione dei pargoli. Sputerò forte sopra le teste degli impagliati cronisti e mi libererò dal fascino stanco delle opinioni in vista. La ricerca è questione di rischio e buio e paura e adrenalina e coraggio. E distinguerò la quiete dalla sonnolenza. Lo sguardo parlante con lo sguardo morto. Farò forza sul mio sesso e gli insegnerò la disciplina conscio che vive di pressioni e spinta, il corpo cavernoso nel quale affogano i dubbi della mia adolescenza. E quando aprirai le braccia, mi farò largo e terrai la bocca aperta così che io possa entrare e lasciarti in eredità parte della mia ombra nera. Illuminerai la regione di me che il sole non raggiunge, sarai mio argine, riva cheta per le mie onde furiose. Sarai mia grandine e mia rugiada, mia simile. Mia amata.
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