Le fiaccole accese degli ultimi giorni di luglio, gli zampironi contro il fastidio delle zanzare e il rumorio del caricatore del cellulare.
Lasciamo le briciole ai cani e tagliamo il salame con tanto di pelle, che sul palato si accendono piccoli fuochi e vien sete e via di vino, un bicchiere ed uno ancora.
Asse di spade e regina e carte coperte. Volano le mosche volano nell’aria densa, le dita gialle di sigarette e gli sguardi bassi. La tosse secca dei vecchi e ancora un bicchiere, un altro giro. Mischia le carte il signore barbuto, son sessant’anni che paiono cento, gli occhi bagnati e fissi, la camicia rossa delle rivoluzioni soltanto sfiorate.
Le diciannove in punto, il Luigino che spegne la macchina del caffè, si inginocchia lo straccio sul bancone per l’ultima passata. Tutti si alzano, le sedie tremano e poi si chetano sotto ai tavoli in legno e metallo. Il bar è quasi vuoto, ora. Il Luigino lava i bicchieri, saluta con la mano destra, e poi l’accompagna tra le cosce come a dire si chiude miei cari, attaccatevi al cazzo. E al cazzo si attaccano tutti e pigliano la porta d’uscita e dicono a culo, a domani e buonanotte. Rimangono seduti solo l’Enrico Tre dita e il Gino Maglietta.
Il primo due dita tranciate dalla pressa, la fabbrica e gli scioperi, lui che s’è fatto la galera, lui degli amori alla boia d’un Giuda e il perdigiorno alla segreteria del partito nelle susine accennate delle nuove leve che per principio il reggiseno lo lasciavano alla volgarità dei grandi magazzini. Gino il Maglietta che s’era rifiutato di indossar la divisa, che ti parlava di libertà col gesto delle maniche e poi la mandava a culo che se parli di libertà significa che non ce l’hai, te lo diceva a nausea e sorrideva compiaciuto col dente d’oro a illuminargli le labbra.
Vedovi entrambi, il passato noto tra i portici di Bologna, arresi alle insegne del bar, passati di moda, a schiacciare le mosche intontite e poi gettarle in un bicchiere per far l’esca a un amo per una pesca che non c’è più.
Luigino prende sotto braccio il Tre Dita e il Maglietta e abbassa la serranda del bar. Tre amanti tra i ciottolo rossi, li porta a casa, a cenare con lui, che l’è domenica e il bar chiude presto.
E se li vedi passare li segui, perché i bolognesi veri son pochi, e li conosci tu che in facoltà t’han detto di quel bar e dei suoi musicisti, li segui per chiedergli dov’è la star, la stella, la celebrità. E loro ti guardano da capo a piedi e proseguono in passi, stretti in un silenzio intimo che sa d’amicizia, che tutto si son già detti e non c’è spazio per le parole. Così prendi la tua domanda e te la rigetti in gola, pensi che il fascino di Bologna sta in questo, son tutti parolai biassanot quei vecchi qui delle carte, ma poi alla luce dell’ultimo sole non parla mica nessuno. Pare che ruminino come le vacche, e tu pensi che la saggezza sta lì, aver la pazienza di digerire il nuovo e poi tirarlo fuori com’è.
E il nuovo qui è una merda. Che c’hai trent’anni e gli amici si son sposati e li vedi poco e quando li vedi ti sembrano altri, non l’han dimenticato il passato, ma si sono detti è ora, cambio la vita e fò su famiglia. Si veston diversi e c’han l’autocontrollo e poi son morigerati, una parola che tu fai anche fatica a pronunciare. Quella solitudine che ti prende già prima del tramonto, che non hai voglia di cucinare e allora tiri su il libro buono e ti fai i portici, ti fermi a bere e ti guardi intorno col fare svagato di chi si perde tra le cosce scoperte dell’estate, ma alla fine cerca consolazione alla notte e desidera condividere le idee rivoluzionarie del fannullone che troppo tempo gli si sbriciola in tasca per accettare le cose così come sono.
Così il giorno dopo entri in quel bar, e lo sai chi ti troverai davanti, quei tre che sfidano le strade a braccetto con gli occhi gonfi di vino. Ti guardi intorno e cerchi la foto del tuo cantautore, e però non la trovi. E gli vorresti raccontare che un po’ gli somiglia a tuo zio, quello che guidava il tram su a Milano, che aveva fatto l’incidente con la macchinona dell’Agnelli e quel là s’era fermato ed era sceso e non s’era mica arrabbiato, no, aveva chiesto a tutti come stavano e poi era salito sul tram col proletariato. E tu gliel’hai sempre detto a tuo zio che l’era meglio prenderlo a bastonate l’Agnelli al posto che portarlo tu col tram ai suoi appuntamenti nelle stanze dei poteri forti. E va ben che la mancia l’era buona, ma non si può mica dargli il culo ai padroni, che già si son presi le nostre dita direbbe l’Enrico.
Sai giocare tu? M’aveva lanciato parole di sputo il Tre Dita. Gli dico non lo so, son milanese, lassù si fa la Peppa Tencia con le carte.
Giochiamo alla briscola qui, anche se la chiamiamo alla bolognese, ma tu non capiresti, sei un iuvnèn.
E io che sapevo giocare alla briscola dico va bene, giochiamo, che il nonno del sud me l’ha insegnata a sei anni, che da quand’è in pensione pensa solo alle carte e a far tardi la sera perché gli anni di matrimonio son tanti e la convivenza invecchia -dice lui-.
E mentre il Maglietta mescola il mazzo e distribuisce le carte una a una e si comincia a giocare, io prendo coraggio e interrompo il silenzio.
Ma lui qui ci viene ancora?
Quella domanda che avevo cacciato in gola già troppe volte, mentre supero in donna la carta nulla che ha lanciato il mio vicino, un baffone alto e magro che ripete più volte un sì che non si sa a chi è rivolto.
Sei venuto per lui? Vai pure via, tanto non torna. S’intromette il Maglietta.
Ma no, dico io, son solo. E’ estate, Bologna si svuota e gli universitari tornano a casa, non c’è niente da fare, mi piace il vino. Non riesco a dormire.
E son cose buone. Mi guarda il Tre Dita e il Baffo ci aggiunge tre sì.
Allora lui non passa più di qua, vero?
Ci passa, ci passa. Prende la mano il Gino, ripete ci passa e scuote il capo. Un paio di sì.
E quando ci passa s’incazza.
Sì. Sì.
Oh, Baffo, ti sei addormentato? A monte le carte, non si può giocare con uno così, che gli dice sì al billo.
E così il Maglietta e il Tre Dita gli strizzano il cavallo dei pantaloni e lui dice sì, si alza dalla sedia e rimane in piedi con le mani strette sul pube.
El pistulòn gli andava forte, tutte le infermiere son passate dal suo letto, le portava al parco, robe da poco però, amava sua moglie, ma lo faceva andare, diceva che era un vanto di pochi piacere a tutte, che lui si dava per beneficenza, ma l’amore rimaneva uno. Ora che l’è morta la sua spàusa, dice solo sì e non parla più e il billo l’è andè, l’è mòrt.
Non possiamo giocare in tre, perché non mi raccontate di lui.
Ancora? Iuvnèn, lui è come tutti noi, siamo invecchiati, qui un tempo era tutto osterie, si aspettava l’alba e si cantava e si brindava e non c’è niente da dire, si tirava tardi a bacajer, bisbier coi dòni, dscarrer della politica, e poi si stava in piazza a fumar le sigarette, come gli universitari di oggi, non è mica tanto diversa la storia, suonavamo tutti la chitarra e lui cantava, e non era mica il più bravo a suonare, ma si inventava le storie e poi alla fine parlava di noi, dello zio, del Luigino, oh, no, Luigino?
Eh? Si sente del bancone.
Il Francesco ti ha fatto la canzone a te?
Il Francesco può andare in culo!
Lo vedi, iuvnèn?
Mica gli piaceva a loro ricordare quel passato che non c’era più, i ricordi li mandavano al culo, cercavano solo il quarto per le carte, che il Luigino non giocava mai, serviva il vino e guardava, e basta.
Perché lo mandi in culo?
La fama è una brutta bestia, lo non lo vedi più in tivù con quei maglioni ridicoli e la barba lunga, se vieni qui ti faccio vedere una cosa, ma prima bevi e beviamo tutti. Io chiudo il bar, che stasera non è serata. Serriamo prima, gli urla nell’orecchio al Baffo che dice sì, sì, e mica saluta, esce dal bar sempre con le mani sul billo e sta impalato fuori mentre il Luigino abbassa la serranda e il Tre Dita e Il Maglietta svuotano i bicchieri.
Il Luigino prende una foto e me la mette in mano. Guarda qui. Dice.
E ci son loro, giovani e con le barbe curate, magri e ubriachi seduti al tavolo, con la tovaglia uguale a quella di adesso, il Francesco con la chitarra e tutti con le bocche aperte in parole.
Ci facevamo una foto ogni sera, iuvnèn, e li vedi tutti quei buchi alle pareti, mica c’han sparato qui dentro, sono i buchi dei chiodi delle foto che avevamo appeso, ma è arrivato un giorno che le ho tolte tutte.
E perché?
E perché, perché, non c’è un perché. Siam tutti bucherellati, quella è la nostra memoria, e se ci chiedon di lui non siam mica cuntant, non siam contenti, perché ci tocca raccontare di noi, e siam fatti a buchi, e ogni ricordo è un dolore, siamo stati sconfitti, iuvnèn, noi volevamo fare la rivoluzione e la rivoluzione non l’abbiamo fatta, e mai la faremo, abbiamo perso e ora quel che rimane è il bar, il vino e le carte, e tutti i buchi che vedi.
Scusate allora, io non volevo.
Stasera è diverso, tu sei da solo, e anche se sei di Milano mi ricordi un po’ noi, non sei mica una foto te, che vieni qui solo, ti bevi il vino e giochi alle carte e non t’arrabbi se il Baffo ti sputa addosso i sì e tu ancora la puoi fare la rivoluzione, ma chiamala in un altro modo che se no ci fai soffrire a tutti, dalle un altro nome.
Allora grazie.
Come la chiami?
Non lo so. Ci penso.
Chiamala pataca. Dice il Maglietta.
Pataca non è male.
Per niente male. Ride il Tre dita.
Che poi se ti piace lui ti piacciamo anche noi, no?
Sicuro.
Mi sembri un bussn. Lo spaventi il iuvnèn. Interviene il Maglietta.
E il Luigino si mette a ridere, son sempre stato un cul figarèn, hai capito?
Non c’è niente di male.
Sta attento a come parli. Che poi il male cos’è? Appena dici male o bene qui dentro sbagli.
Andiam di filosofie? Continua il Maglietta e porge il bicchiere vuoto.
Prenditi un vetro, facciamoci un brindisi su.
A che?
Ai iuvnèn come questo qui, e ai buchi.
Evviva, evviva, evviva. E giù d’un fiato.
E tu che non sai che fare, che sei lì che ti sembra che è tutto inventato, che le sciocchezze son fatte per il bar, e la vita si insegna col bicchiere in mano. E non ti prendi sul serio, però la storia del bene e del male ti ha colpito e non sai che dire, che devi star attento alle parole che usi e poi la serranda che suona in metallo, si sente bussare.
Il Luigino che urla: Stà buono, Baffo, aspettaci là.
Si sente un sì, sì, ma è diverso da quello del Baffo. E ancora bussare.
Chi è?
Un’occhiata d’intesa e assetto da guerra, il Luigino che prende la mazza da baseball, il Maglietta il bicchiere grande della birra e lo carica dietro la spalla, il Tre dita che afferra il mocio e lo tiene in lancia e mi getta la scopa.
Bussano ancora.
Chi sei?
Che siam pronti all’agguato.
Sì, sì, e china la testa il signore e passa sotto la serranda. E l’aspettiamo in coorte.
E appena ci vede lui scoppia a ridere e fa no no, ripete no no, amici miei. Non me l’aspettavo mica che stavate chiusi a farvi i giochini sadomaso. E mi fate pure abbassare per farvi l’inchino. Mi inchino a voi allora, pifarlot.
E abbassiamo le armi, è arrivato il Francesco.
Lo vedi che va al bancone, che si versa il vino, che bestemmia perché non c’è mai il rosè, che apre un grignolino.
E io non so mica che dire, e non dico niente.
C’abbiamo il quarto per le carte. Dice il Maglietta.
Porta il mazzo, Luigino.
E quattro bicchieri, rasi.
E il quinto per te, che bisogna brindare ancora stasera.
Si è ringiovanito il Baffo? Dice il Francesco riferendosi a me.
E’ solo un iuvnèn.
Non mi ha mica riconosciuto. Bisbiglia al Luigino.
Non ti conosce più nessuno, Francesco.
La ista ban, prinzipiem a zughèr.
Non si parla più adesso. Mi dice il Tre Dita, una pacca sulla spalla. E un sorso di vino.
Sì, sì.
E sbaglio a giocare perché penso a un nome nuovo per le rivoluzioni.
Sì, sì.
Fuori dal bar qualcuno ancora non tace. E come l’alba, ci aspetta.